Quiddam divinum. Riflessioni sul metodo storico

Meglio che getti a mare l’orologio che hai al polso

e cerchi di capire che il tempo che vuole catturare

non è altro che il movimento delle sue lancette[1]

 

Quiddam divinum[2]: riflessioni sul metodo storico

 

Introduzione

L’acceleratore costantemente schiacciato del tempo storico scompiglia gli archivi, genera pensieri vorticosi, innesca rincorse azzardate dentro ai meandri di una realtà documentale davvero aumentata.  L’archivistica, alla stessa stregua dell’intera società, è finita dentro a una poderosa galleria del vento che pone alla prova, con test severissimi, metodo e prassi. Vacillano emblemi.

Il metodo storico… Il vecchio caro metodo storico. Ansiolitico cencettiano. Lontano anni luce dall’oggettività scientifica, ma faro nella nebbia del riordino. Come regge al presente, ad archivi diversi da quelli per cui è stato sagacemente e tenacemente inventato? Intanto, alla prova dei fatti parlerei piuttosto di metodi storici, di tanti metodi e altrettante provenienze, quanti sono gli archivi da affrontare e il loro progressivo frantumarsi in spezzoni figli di formati e modelli di produzione diversi. Ma per quello che ci riguarda qui non è neppure questo il punto. Il punto sta più nel valore simbolico del metodo, in ciò che rappresenta al di là dei limiti tecnici che il tempo inevitabilmente evidenzia. Il punto è politico, il metodo storico è l’emblema della questione archivistica che stiamo attraversando. Infatti il metodo storico ha una caratteristica fondamentale: rappresenta una risposta politica ancora prima che culturale. Fu adottato per legge, manifestando una volontà appunto politica di governare la memoria. Una volontà che oggi manca e che dobbiamo tentare di far venire a galla in nome dei metodi storici e dell’esigenza di continuare a governare archivisticamente gli archivi. Il metodo dunque come bandiera, come manifestazione di una volontà forte di continuare a amministrare la memoria, comprendere il presente, garantire il futuro. L’archivistica deve aggiornare i suoi ferri del mestiere, quando non sostituirli, ma non deve abdicare al suo ruolo sociale, civile, pubblico. La dimensione politica, il potere degli archivi[3] sono, per così dire, valori non negoziabili. Ordinare o riordinare, lo vedremo, sono attività che passano attraverso contingenze sempre più sfuggenti e complesse. La volontà di dominio che il metodo storico ha incarnato per secoli vacilla e dovremo fare i conti con epifanie di memoria meno strutturate, meno “domestiche” se mai la memoria archivistica è stata addomesticata. In questo scenario di inquietante trasformazione non deve però venir meno il controllo archivistico o, almeno, la volontà di un controllo archivistico. Di un controllo frutto di quella che potremmo definire una coscienza progettuale attiva, non di semplice supervisione su meccanismi talvolta invece inafferrabili. Nuovi metodi per vecchi ruoli e inossidabili valori. Gli archivi cambiano, si fanno forse anche altro da ciò che sono sempre stati, cambia la percezione stessa del documento e della memoria, strumenti e valori devono adeguarsi al mutamento sociale e tecnologico. La ricerca archivistica è chiamata a dare risposte su questo terreno, forte però di un bagaglio esperienziale che non può essere trascurato. Gli occhiali della tradizione servono a vedere il nuovo, magari per accorgersi che tutto cambia per tornare poi uguale a se stesso e che nelle grandi pagine di archivistica del passato era in parte già scritto un lungimirante futuro. Il che rende ancora più colpevoli atteggiamenti di rinuncia o sfiducia, in un momento in cui la passione, l’entusiasmo lucido e la determinazione possono fare la differenza.

 

 

Presentismo e metodo storico

“Di solito chiamiamo reali le cose che esistono adesso. Nel presente. Non ciò che è esistito tempo fa o esisterà in futuro. Diciamo che le cose nel passato “erano” reali o “saranno” reali ma non che “sono” reali. I filosofi chiamano presentismo l’idea che solo il presente sia reale (…)”[4].

Il presentismo di cui parla Carlo Rovelli è forse la malattia più grave che attanaglia la nostra società. L’incapacità di dare corpo a “momenti” diversi dal presente è il sintomo di un appiattimento, non solo archivistico, della società stessa. La formula magica dell’archivistica da sempre è stata invece la mirabile capacità di dar corpo al passato consentendo di prevedere il futuro rendendolo tangibile. L’archivistica, come la fisica, riesce a interpretare il tempo, perché si nutre di tutti i presenti che hanno costruito gli archivi e li costruiranno. Passato e futuro in archivistica sono reali, ci si fanno i conti, li si riesce a pre-vedere. Ecco, il metodo storico in fondo è uno strumento per pre-vedere il passato, è un’alchimia che porta l’immaginazione a rendere tangibile il passato. Bonaini, che entrando in un archivio[5] più che “cercare” le istituzioni le “vede”, supera il presentismo, passeggia in un passato tornato reale. E quel passato parla a lui e a noi. Il metodo è allora un geniale escamotage teatrale, una macchina del tempo che sostanzia il passato di presente. O, meglio, che vivifica i tanti presenti che hanno generato archivi nell’arco del tempo. Il presente, nella visione sostenuta dal metodo storico e nelle sue conseguenze, non è più immanente congiuntura ma si trasforma in materia viva, che scuote il tempo alla radice. Il metodo storico, insomma, è uno strumento potente di personificazione archivistica e storica del tempo. Una recita che urla contro l’immobilismo tetro di società senza prospettive. Noi, qui e ora, viviamo la crisi di questo modo di intendere il metodo storico e, di conseguenza, rischiamo di cadere preda del presentismo. Un presentismo alimentato peraltro a piene mani da un uso indiscriminato delle risorse tecnologiche e da una progressiva sostituzione delle realtà con un’unica potente rappresentazione digitale. Il presentismo è al tempo stesso un indice di crisi per una disciplina come l’archivistica, che con il tempo e lo spazio si balocca mettendoli continuamente in scena (ogni riordinatore tocca con mano la “realtà” del passato, così come ogni protocollista registra momenti di presente per farne segno di potenziale, imperituro passato), e uno sprone a rivestire un ruolo più incisivo, soprattutto dal punto di vista antropologico e culturale. La crisi esiste, la disciplina per molti versi arranca, eppure c’è l’opportunità di lasciar sprigionare dalla crisi energie nuove. Esiste una questione archivistica, una crisi che non si può ridurre a un mero e ragionieristico bilancio di entrate e uscite, di concorsi e assunzioni. La dimensione quantitativa ha sicuramente un suo peso ma è quella qualitativa a preoccupare di più. La crisi mette a nudo crudamente il ritardo teorico, il paradigma epistemologico in affanno, l’incapacità di seguire il mondo e di farsi accettare dal mondo.

Se allarghiamo lo sguardo al panorama che ci circonda molte certezze infatti possono vacillare. La fisica quantistica[6] ci insegna ad esempio che lo spazio e il tempo non sono semplicemente un luogo o una data, ma oggetti fisici alla stessa stregua di un elettrone. Ma se il tempo fisico non è unico e se gli spazi/tempi (plurali in quanto “oggetti”) sono entità fisiche e come tali agiscono e il tempo si scioglie in una rete di relazioni cosa ne è dello spazio e del tempo archivistico/storico/fattuale? Forse quello che noi raccontiamo o, meglio, immaginiamo, è solo uno degli spazi/tempi che si manifesta interagendo con degli oggetti che noi chiamiamo documenti, una rappresentazione codificata ma tendenzialmente inaffidabile. La fisica quantistica ci dice anche che il tempo non è orientato e che quindi il segmento newtoniano del ciclo vitale va rimesso in discussione, come del resto avviene nel contesto digitale dove un circolo, il record continuum, si sostituisce al segmento. Ma la circolarità sembra adombrare il dubbio fisico e filosofico che non ci sia differenza tra passato e futuro.

La fisica allora è nemica della storia? Della storia quale la intendiamo e l’abbiamo intesa, basata su un flusso lineare di ricostruzione documentale legata ad eventi consolidati forse sì. E come mettiamo in relazione la nostra archivistica e i nostri modelli con la rappresentazione scientifica del mondo che ci circonda? Una volta di più appare chiaro che costruiamo scenari soggettivi e che la crisi dell’archivistica non è solo quella banalmente legata ad una endemica carenza di risorse. È una crisi, potremmo dire, scientifica e filosofica, che forse troverà nel futuro indicazioni per la sua soluzione. E sarà forse proprio la tecnologia, adeguatamente governata, a fornirci risposte che oggi ci sembrano lontane. Quello che sembra sicuro però è che il rinnovamento metodologico, il suo adeguamento alla realtà, passa anche per questi interrogativi. Il mondo archivistico ricorda in qualche modo quel disordine razionale che è l’universo dei fisici, dove le cose esistono in quanto accadono. Ci sono avvenimenti che si manifestano non in un tempo assoluto. Così negli archivi e nella memoria esiste quello che si rappresenta, quello che si fa accadere. Il mondo da riordinare è una serie di interazioni da scatenare dove la casualità, se non la soggettività, hanno il loro ruolo. Forse allora più che di metodo storico si potrebbe iniziare a parlare di un metodo fisico di intervento sugli archivi, inteso come capacità di mettere le entità in relazione tra loro per renderle “reali”, distribuendole però su un piano di espansione che non sia più solo gerarchico ma anche multidimensionale, in maniera che i fattori spazio e tempo possano esercitare la loro azione sulla componente documentale. Immagino un software che consenta di spalmare un archivio su un piano, dove sia possibile in divenire aggiornare l’ordinamento. L’ordinamento fisico presuppone una dinamicità inesauribile, l’arricchimento nel tempo e nello spazio di contenuti informativi in ultima analisi svincolati da una singola rappresentazione. Se gli archivi sono rappresentazioni “culturalmente condizionate” del mondo, vanno in qualche modo accostati alle leggi dell’universo. Certo questo pone l’archivistica di fronte ad un cambio di passo e di statuti.

Richiede soprattutto il coraggio di ammettere che si deve uscire dalla trincea di un metodo e di un modello di rappresentazione che possono rivelarsi insufficienti, se non fuorvianti, sia per il passato che per il futuro. La concatenazione gerarchica, la “siusizzazione” dell’universo lascia dietro di sé relazioni, pezzi di significato, oggetti che magari esulano dalla filastrocca fondo, subfondo, serie, sottoserie. Più che di gerarchie chiuse in sé stesse bisogna forse cominciare a occuparci di atomi di informazione in collisione gli uni con gli altri che dall’incontro con altri atomi ricavano i loro significati.

Cavalcare una crisi, però, significa innanzitutto cercare una via di uscita, una soluzione che porti nel futuro. L’archivistica è in crisi ma non è morta, anzi si dibatte con un certo vigore. Vive nei molti lavori sul campo che si confrontano ogni giorno con la contemporaneità, vivacchia in un dibattito metodologico un po’ asfittico, al momento attento più a una dimensione tecnico politica cha a inseguire e definire i nuovi assetti epistemologici. Per capire bisogna oscillare tra vecchio e nuovo e non compiere l’errore di inseguire il futuro sul suo terreno. Cos’è dunque archivisticamente il futuro? Essenzialmente tecnologia, una tecnologia sempre più raffinata e drammaticamente autonoma. La mole di dati generati e i sistemi di analisi e classificazione dei medesimi vanno alla fine oltre gli archivi. Giano è interdetto. Indietro e tra le ultime maglie del presente ci sono archivi complessi ma “umani”. Davanti questa visione si dissolve dentro a sistemi potenzialmente sempre più distanti dal governo archivistico in senso classico. L’intelligenza artificiale e le sue conseguenze non sono miraggi futuribili ma realtà prossime venture. In che misura impatteranno sulla produzione e sulla gestione dei documenti? Il protocollo informatico, che fu l’inizio di tutto, in questa prospettiva sembra ormai un relitto, qualcosa che il tempo ha tecnologicamente superato. Si corre a tutta velocità, questa è la verità. Archiviare la rete, far fronte all’interoperabilità, confrontarsi con algoritmi tassonomici sono solo alcuni dei compiti che ci aspettano. E abbiamo tra l’altro le armi spuntate da una formazione “bipolare”, priva della necessaria continuità e spaccata tra modelli legati al passato e avventurose e indispensabili rincorse del futuro. Certo, come dicevamo, il futuro non va inseguito e il passato va adeguatamente rispettato – come si tenterà di fare qui-  se non altro per capire che molti dei suoi punti di forza si stanno modificando e che è pernicioso applicarli a una mutata sensibilità documentaria. A partire dal concetto di riordino che è al centro di questo contributo. Ma riordino è una parola che non basta, come vedremo a garantirci per il futuro. È una parola decisiva per aprire il forziere del passato ma che si rivela inadeguata al futuro. La memoria stessa, continuando a utilizzare questa parola in tutta la sua genericità, non ha più soltanto il sapore del passato ma acquista sempre più il gusto del presente e del futuro. Dobbiamo imparare a pronunciare la parola memoria pensando anche ad un fenomeno futuro, non solo passato.

Riflettere sugli archivi oggi significa avere la capacità di valutarli anche al di fuori di una dimensione esclusivamente storico culturale. Proprio per difendere il valore di memoria storica che gli archivi nella loro complessità rappresentano occorre individuare strategie che rendano, per così dire, meno desueti gli archivi stessi. Bisogna insistere sull’utilità sociale ed economica, nonché politica, degli archivi e degli archivi correnti in particolare. Pensare corrente per vivere (anche) storico, insomma. Riequilibrare il rapporto di forza tra le diverse finalità dell’archivio, tenendo presente le dinamiche digitali che scaraventano dentro al futuro le responsabilità dei cosiddetti custodi della memoria. I quali divengono in questa congiuntura più costruttori che custodi di memoria.

Del resto il dilemma che fin dal XIX secolo attraversa e in qualche misura spacca l’universo archivistico è quello su quale sia la natura dei sistemi di documenti. Testimonianze del diritto o reliquie del passato? Certamente schiacciare la dimensione archivistica nella prospettiva dei beni culturali non rende ragione alla ricchezza e, soprattutto, alla storica importanza strategica degli archivi. Gli archivi devono essere percepiti in prima battuta come strumenti di democrazia, efficienza e certificazione del diritto. Gli archivi non sono “utili” testimonianze del passato, sono strumenti di governo e di autogoverno. Per questo motivo forzarne la percezione in una dimensione “beneculturalista” li indebolisce. C’è bisogno, allora, di costruire politicamente una nuova percezione degli archivi, svincolandoli da un modello che è nei fatti perdente. Gli archivi devono poter contare su un modello organizzativo e conservativo autonomo, che ne rispecchi le peculiarità e ne esalti le potenzialità. Gli archivisti non sono solo “avanzi di deposito” ma figure professionali complesse evolute, a patto che essi per primi sappiano riconoscersi come tali. Sarebbe auspicabile quindi che il sistema archivistico, tutto, facesse capo ad una agenzia capace di tutelare le sue peculiarità e in grado di gestire anche la modernità, interfacciandosi con gli altri soggetti che in questa fase governano la transizione infinita al digitale. Tutte cose che nel merito e nel metodo il MIBACT ha dimostrato di non volere e non sapere fare. Occorre insomma riconoscere e far riconoscere il potere degli archivi su qualsiasi versante lo si voglia declinare. Solo la consapevolezza politica della centralità degli archivi sembra poter garantire loro un futuro. Mantenere gli attuali assetti intervenendo con tagli lineari che non risolvono la questione strutturale significa negare un’emergenza e un’emergenza che non riguarda solo un ridotto numero di ricercatori e professionisti ma tutto il Paese. Gli archivi quindi non come polveroso residuo di attività passate ma come strumento di efficienza. Gli archivi importanti davvero e adeguatamente governati nel rispetto di tutte le loro caleidoscopiche proprietà.

 

I metodi storici

“È’ noto che quando gli archivisti italiani si pongono la domanda su quale sia la storia che in nome del metodo storico il riordinatore di archivi deve rispettare, in quanto inscritta negli archivi stessi, la risposta è: la storia dell’istituto che ha prodotto l’archivio; donde poi la tesi della conversione dell’archivistica speciale nella storia delle istituzioni. È anche noto tuttavia che l’applicazione rigorosa di questo criterio all’opera di riordinamento degli archivi e di stesura degli inventari ha incontrato e incontra molte e gravi difficoltà”[7]. Volendo parlare di riordino e di inventariazione, per cercare di capire non tanto l’evoluzione quanto gli esiti e soprattutto gli sviluppi futuri di un processo di costante durata non si può che partire da qui, dalle “molte e gravi difficoltà” di Claudio Pavone. Partire cioè dal disagio che deriva dal disallineamento inevitabile tra l’idea dell’archivio e l’archivio stesso, in un crescendo di responsabilità individuale che il metodo storico non allevia. Quello che occorre analizzare è la vicenda della sedimentazione, della progressiva stratificazione della documentazione archivistica “il tradizionale esempio del setaccio attraverso il quale si devono far passare metaforicamente le carte per iniziare a riconoscerle e a distinguerle ai fini del loro ordinamento”[8].

Riordinare. Perfecte ordinare. L’imperativo secolare del lavoro archivistico[9]. Rimodulare, ripensare gli archivi alla luce della fiammella sempre più tenue di un metodo storico che gli anni e i fatti hanno progressivamente indebolito. Il riordino bonainiano e poi cencettiano nasce da un’incontenibile ansia di catalogazione istituzionale, da una tassonomia politica, anche se in fondo non è “curioso”, e non si interessa più di tanto ai contenuti. Si devono cercare le istituzioni e non le materie certo, ma nelle “materie” stanno i contenuti, il sangue che irrora l’organismo archivistico, la ragione di interesse di ogni tipologia di utenti. L’astrazione istituzionale del metodo storico originario ha in fondo proprio questo limite, quello di non porsi per nulla il problema del punto di vista degli utenti, in una sorta di rispecchiamento, questa volta reale, tra archivio e archivista e tra archivista e utente. Allo stesso modo il XIX secolo consegna al successivo la codifica del riordino e le finche bongiane[10] divengono la categorizzazione di un pensiero astratto, il tentativo di classificare, potremmo dire con l’uso della forza, una informazione che esce da questo trattamento rigida e irreggimentata come un plotone di soldati in parata. La simulazione cioè della guerra, ma non la guerra, che è fenomeno ben più complesso e articolato di una parata, così come complessi e articolati sono gli archivi, restii a farsi rappresentare, come oggi sappiamo bene, da rigorose classificazioni descrittive.

Eppure il metodo storico, nonostante questi dubbi di sapore postmoderno ha funzionato. È stato utile, ha vinto la sua battaglia. Come ricorda all’amministratore dell’azienda l’Artur Paz Semedo di Alabarde alabarde “per fare un lavoro del genere sarà necessario un orientamento, un criterio, non può servire qualsiasi documento solo perché a me è parso importante”[11]. Il metodo storico è stato ed è per gli archivisti un criterio, un orientamento cui negli anni si sono aggiunte glosse e riflessioni, la più clamorosa quella degli standard, ma che ha resistito con la schiena dritta all’incedere del tempo.

La consacrazione di questo metodo ope lege, con il primo regolamento archivistico dell’Italia unita[12] non è un particolare trascurabile. Manifesta una volontà politica di pensare la memoria, di organizzarla e di costruirla più che di ricostruirla. Il dato rilevante di quel passaggio del resto, e sia detto incidentalmente, è proprio il manifestarsi di una volontà politica in senso ampio di gestione e controllo degli archivi. Il metodo storico dunque si rivela funzionale anche ad un progetto politico, oltre che alla soluzione di problemi tecnici. Quello, sia detto altrettanto incidentalmente, che manca ai nostri giorni. In questa visione prende corpo un pensiero che attraverserà il Novecento, quello della quasi ineluttabilità del riordino. L’ordine originario, che forse non è mai esistito, va necessariamente in frantumi. Sugli archivi si deve intervenire a valle. Ma questo a ben guardare non è tanto un problema di organizzazione dell’informazione. È piuttosto innanzitutto la constatazione di un progressivo degrado istituzionale che in maniera più o meno dolosa “arruffa” gli archivi. La macchina amministrativa si degrada e produce risultati documentari degradati che devono essere bonificati con il riordino. Il riordino come espiazione del peccato archivistico e istituzionale. Molto cattolico a ben pensare.

Ma c’è anche, accanto a questo dato fattuale, un atteggiamento di natura culturale, la volontà, quando non la presunzione, di ricostruire memoria. L’archivista demiurgo che trae dalle sue schede il potere di rappresentare il passato. Non conta quale passato se non il passato che il presente immagina o predilige. Nella dinamica ordine disordine allora si nascondono insidie nemmeno troppo potenziali, le molte e gravi difficoltà di Pavone. Ma quis custodiet custodes ipsos? Che peso ha sulla storia la storia che potremmo definire di natura antropologica, se non biografica, di chi ha riordinato l’archivio? Una questione non irrilevante, se ammettiamo le considerazioni fatte sopra. Dunque un metodo che di storico sembra avere per certi versi la storia personale di chi lo applica, lontano comunque anni luce da una oggettività scientifica. Un canovaccio, più che un metodo, il valido spunto per tante jam session documentali.

E poi l’altra domanda, su quali archivi si forma il metodo? Il modello di riferimento è quello degli archivi delle grandi istituzioni pre unitarie, i “cessati governi”, e dei nascenti apparati burocratici. La scelta del 1875 è chiara, si privilegiano archivi statali[13], un certo modo di pensare, rappresentare e conservare il mondo. Questo codice genetico è di quelli di lunga durata e, almeno inizialmente, non sarà scalfito neppure dalle aperture a nuove tipologie documentarie che si registrano a partire dal 1939. Solo in tempi successivi l’attenzione descrittiva è venuta progressivamente concentrandosi su fondi meno strutturati e istituzionali, più volatili, meno “archivistici”, fino al caleidoscopico approccio attuale, fatto di archivi psichiatrici, della moda, della musica, dello sport e così via come testimonia ad esempio la ricchezza dei portali tematici di SAN[14]. Ma l’impostazione di base, almeno per i riflessi che ha avuto sul metodo, resta quella originaria. E ciò finisce inevitabilmente con l’influenzare le pratiche descrittive e l’abito mentale dei descrittori, che almeno fino agli anni Settanta mantengono dritto il timone verso la sponda giuridica.

Avvicinandosi ai giorni nostri, complici anche le suggestioni e le perversioni tecnologiche, il metodo con tutta evidenza non riesce però a sostenere più se stesso o quanto meno il singolare. Il manifestarsi di nuove aggregazioni o, meglio una nuova sensibilità nei confronti di queste nuove aggregazioni, lo mette alla frusta. Anche gli standard devono ammettere che la descrizione e “general”, che non esistono schemi meccanici. Raccontare gli archivi, dar loro un ordine significa di volta in volta sottoporli al vaglio degli eventi e della soggettività descrittiva. Come ci insegnano i maestri ogni archivio è uguale sostanzialmente a se stesso. E a chi lo descrive. Meglio parlare allora di metodi storici per dar conto di un modello di fondo che le persone, il tempo e gli archivi stessi hanno contribuito e contribuiscono a rimodulare[15].

Ogni riordino è ovviamente figlio del suo tempo, se non della sua ora, ogni riordino obbedisce alla realtà, al contesto scientifico e culturale in cui si colloca. Fatto questo che conferisce natura interpretativa più che tassonomica al lavoro archivistico. La dimensione concettuale, i comportamenti indotti dalla non organizzazione dell’archivio prevalgono e orientano la natura fortemente intellettuale dell’intervento. Questa in fondo la lezione di Pavone. Una lezione di estremo rigore intellettuale in quanto agganciata a una realtà che potremmo definire fattiva, a uno sguardo interessato, quello dello storico, agli archivi. “(…) il prius è sempre la richiesta che la cultura pone agli archivi”[16]. Gli archivi si manifestano in ragione dell’ordine che gli si conferisce e quest’ordine è in qualche modo subordinato a istanze e aspettative culturali più o meno evidenti. L’archivista riordinatore non reagisce tanto al metodo quanto a tali istanze. Il contesto diffuso, quello in cui si cala il riordino, è il primo elemento di rimodulazione dei fondi archivistici. Uno fra i tanti. Il riordino è il preludio a un racconto soggettivo, la sceneggiatura che sarà recitata nell’ inventario. Riordino e inventariazione, due operazioni distinte ma intrinsecamente abbracciate come ci ha insegnato a suo tempo Paola Carucci[17].  Il collante di queste categorie intellettuali è senza dubbio la descrizione archivistica, declinata nelle sue molteplici accezioni e possibilità. L’evoluzione della descrizione, dei modi e dei tempi della descrizione, definisce e ridefinisce l’archivio. Cioè, in ultima analisi, il racconto dell’archivio scaturisce dal riordino più come risultato interpretativo che come risultato dell’applicazione di un metodo, e la descrizione diventa causa/effetto degli stessi strumenti utilizzati per generarla.

Esiste una tensione sovrastrutturale che attraversa da secoli l’intero processo di descrizione archivistica. È lo spettro del soggetto produttore, percepito come sorgente inevitabile del fondo. Questa tensione, parossistica in Cencetti, è stata rimodulata e allentata successivamente. Lo sforzo di Pavone, da storico oltre che archivista, di confrontarsi con il fatto, oltreché con le fabbriche dei fatti, ha riportato la descrizione e la percezione più vicino a quei contenuti che ne sono la polpa. Ma Pavone e i pavoniani si sono comunque dovuti confrontare con il tema della organizzazione della informazione. E sono anch’essi dovuti ricorrere allo strumento, poco realistico e poco archivistico della periodizzazione. Gabbie informative che contengono come busti ortopedici gli archivi. Questa tradizione pesa, come pesano gli standard descrittivi che ne sono dichiaratamente eredi. Pesa nel lungo periodo e informa di sé anche l’impianto dei sistemi informativi archivistici, che raccontano agli utenti un mondo in scatola che non sempre essi sono in grado di comprendere e assaporare. Ma forse i soggetti produttori sono rigidi e gerarchici solo ex post, nel tentativo bidimensionale di dare un ordine alla vita che invece, come è noto, è tridimensionale. I presenti dentro ai quali si sono mosse le fabbriche dei fatti, come le abbiamo definite, la realtà vitale di cui sono state protagoniste, non sono mai stati gerarchici, non hanno mai dato luogo a riscontri documentari speculari. Basta guardare dentro ai complicati archivi correnti contemporanei per comprenderlo. La vita, e con essa i documenti, fluisce eccentrica, indisciplinata. È uno specchio in frantumi quello dentro al quale si guardano gli archivi. Gli stessi titolari faticano a imbrigliare il flusso informativo. La vita e gli avvenimenti che la popolano non sono gerarchici. La nostra descrizione insomma ha fin qui rappresentato gli archivi come poteva e lo ha fatto molto bene nei limiti intrinseci agli strumenti disponibili. Gli alberi e la gerarchia non sono da buttare, ci hanno insegnato a ragionare in termini organici, a non cedere al caos potenziale, a modulare schemi possibili e accoglienti dentro ai quali ricondurre le immagini che abbiamo degli archivi. La contemporaneità apre però scenari nuovi, offre strumenti tridimensionali, capaci di imitare la vita, di esaltare la molteplicità delle relazioni che esistono tra i contenuti di un archivio. A questo dovrebbe servire prima di tutto digitalizzare: a soffiare la vita sui contenuti dando loro la parola, evitando di farli raccontare solo dalle strutture. Le strutture restano, ma cambiano verso, nome e forma. Con tutti i limiti che ancora manifesta un processo in corso[18], gli scenari che si intravedono dietro l’evoluzione di RIC sembrano offrire concrete testimonianze in questo senso. Immaginare gli archivi come block chain, assemblaggi di pacchetti informativi affidabili e in continua evoluzione può aiutare a dare risposte che la tradizione non riesce più a offrire. Tag, ontologie e approccio semantico in genere possono fare molto per la descrizione archivistica. Forse sono già la descrizione archivistica. Lo sono inevitabilmente per gli archivi digitali che nascono liquidi e distribuiti, ma lo possono diventare anche per quelli analogici, imponendo pure qualche riflessione sulle modalità di applicazione del metodo storico. Il mediatore contemporaneo insomma ha dalla sua l’arma potente della tradizione e quella potentissima di sistemi di organizzazione e comunicazione della informazione senza precedenti, aperti a possibili, proficue contaminazioni con altri domini disciplinari. Occorre davvero cambiare passo, affacciarsi a nuovi e diversi statuti disciplinari, calare i valori archivistici dentro a questo nuovo crogiolo. Il faticoso tentativo di sistematizzare ciò che sta accadendo sotto ai nostri occhi, di ammettere alla corte di ciò che continuiamo con coraggio a chiamare archivio anche saperi diversi, non concorrenti ma di supporto alla soluzione di problemi apparentemente angosciosi, può rappresentare una nuova svolta epocale nella disciplina, salvandola dall’atrofia o, peggio, dall’inutilità sociale che la minaccia.

Cosa resta dunque del metodo storico e cosa resterà dell’impianto descrittivo su cui bene o male stiamo continuando a fare affidamento? Cosa accade quando li caliamo nella realtà documentaria, evitando di indugiare su astrazioni di scuola? Molti archivi contemporanei sono piuttosto riottosi ad andare a infilarsi dentro a strutture precotte. Nascono liberi, si potrebbe dire, spesso fuori dal controllo tassonomico. Sono intrinsecamente destrutturati, privi di un controllo archivistico che non sa e non può sovrintendere alla sedimentazione documentaria. La gerarchia viene meno fin dalla produzione e non soddisfa completamente neppure come ipotesi di riordino, a meno che non si faccia ricorso a robuste forzature. La rete di relazioni che compone l’archivio ruota allora non intorno alle serie ma ai significati dell’azione del soggetto produttore. Che si intercettano su piani orizzontali. Le serie sono di volta in volta una sorta di query a partire dai contenuti. Cambia dire che un’unità “è figlia di” (uno a uno) invece che “ha relazioni con” (uno a molti). Ci troviamo insomma ancora una volta su un confine. L’archivistica sembra una disciplina condannata all’esplorazione, all’esigenza di trovare risposte a trasformazioni che ora più che mai si succedono vorticose. L’archivistica, questa nostra archivistica deve necessariamente essere visionaria, cercare fuori di sé le soluzioni ai problemi che la assediano e che mettono in discussione il suo ruolo. Perché quello dentro al quale ci muoviamo in questi nostri anni tecnocratici è un territorio archivisticamente di confine. Si vive di visioni ormai, di impressioni digitali. Ed essere visionari può aiutare ad andare oltre i limiti fisici che inchiodano la disciplina.

Suggestioni fisiche alimentano questo approccio per certi versi sensoriale per altri neoparadigmatico agli archivi. Il concetto stesso di spazio, cardine insieme al tempo del lungo romanzo archivistico che attraversa in maniera sostanzialmente pacata i secoli, può essere messo in discussione “(…) la teoria (della relatività ndr) predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare (…) descrive un mondo colorato e stupefacente dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta” abbassandosi su un pianeta[19]. Da questo punto di vista certo molti schemi possono traballare e divenire inappropriati. Con quale tempo e con quale spazio fa allora i conti l’archivistica? Con uno spazio rappresentato, con un tempo possibile, accaduto ma in una dimensione elettiva più che in una realtà. La realtà diventa una matassa sfuggente che ci suggerisce duttilità piuttosto che schematismi. Certo l’archivistica non è e non sarà mai fisica, eppure con i concetti di realtà, spazio, tempo divenire, si deve confrontare. Sulla relatività archivistica occorre riflettere a fondo. Quanti tempi, quanti spazi hanno agito su un archivio nel momento cui lo si sottopone al lifting del riordino? Come fare a dar conto di questa pluralità?

E allora nel momento, o, meglio, nella fase in cui crescono e si manifestano nuovi modelli descrittivi come ci rapportiamo con il presente? In qualche modo iniziamo a pensare nuovo[20] ma agiamo vecchio. Posto che il vecchio sa essere anche di grande qualità e che sarebbe decisamente poco intelligente cedere a forme di snobismo iperfuturista, possiamo provare a chiederci come affrontare quella che si annuncia come una lunga transizione. Personalmente ritengo che siano tornati i tempi di discutere sulla descrizione inventariale[21], su certi suoi assiomi e su certi limiti. Di tornare ad immergersi nella bidimensionalità con occhi e sensi ormai tridimensionali. Di capire come traghettare un’esperienza consolidata nel futuro senza tradirla. I nuovi inventari, ci piace immaginare, non saranno più rigorosi (e quasi mai rigogliosi) elenchi strutturati di cose incorniciate da un contesto tutto sommato rigido. Potranno essere racconti dinamici e autorigenerantisi dei contenuti e dei molti elementi (contesti) che ne segnano la fruibilità. All’orizzonte, insomma, dentro a uno spazio archivistico costellato di ontologie, si profilano strumenti che si definiscono non più in se stessi ma in ragione dei loro contenuti. Se si condividono queste premesse appare evidente che anche il software archivistico dovrà sempre più assecondare un modo di lavorare object oriented. Un ragno obbediente, il software, che costruisca reti di significati contestualizzati. E lo stesso processo di descrizione archivistica dovrà adeguarsi. Potremo vedere i fondi e il mondo da un altro punto di vista. Anche perché sta succedendo qualcosa di simile a quello che capitò all’archivistica della seconda metà del XIX secolo quando “gli archivisti si trovano di fronte all’urgenza di trattare grandi quantità di documenti, di massima afferenti agli antichi regimi”[22]. Oggi il digitale che poi in fondo non è così contemporaneo ma insospettabilmente datato[23], ci  pone di fronte ad una nuova emergenza che non è semplicemente quella conservativa. Siamo davanti a un’emergenza descrittiva e conservativa simile a quella che a suo tempo venne risolta con l’invenzione più o meno fortuita del metodo storico. Parafrasando Bonaini, e chiedendo venia ai numi archivistici e anche a chi legge, potremmo dire che un uomo che entra in un grande server non cerca i file ma le relazioni che intercorrono tra loro. Il problema cioè di ribadire il metodo adeguandolo, di non far prevalere la parte, o le parti, sul tutto. Un tutto che fluttua, si delocalizza, si moltiplica, sfugge ai guardiani di memoria. Un tutto che i soggetti produttori, frammentati anch’essi, gestiscono con disinvolta naturalezza. I vecchi “affari” sono diventati procedimenti complessi, intersecati, interoperabili. L’archivio digitale e/o la sua utopia precipitano a valle con la forza di un fiume in piena, delta documentario riottoso ad un’organizzazione a posteriori. L’archivio digitale si ordina, non lo si può riordinare. All’archivio digitale bisogna, anzi, impartire degli ordini. Ma come si ordina? Come gli si conferisce o, meglio, gli si impone un ordine che deve suonare davvero come un comando? Come lo si controlla nelle sue multiformi fenomenologie? Basta un titolario?

Che strumenti epistemologici abbiamo per comprendere e interpretare ancor prima che conservare gli archivi digitali? Cosa conosce l’archivistica dei segreti meccanismi che generano liquide filiere di dati?[24] Come li può, se può, e deve, amministrare? Hardware, software, supporti, procedure, modalità di trasmissione, processi di conservazione, metadati, gli archivi sono tutto questo. E la parola archivio, per una somma di motivi, non basta più. Si scrive singolare e si legge plurale, gli archivi di un soggetto produttore ramificato nel suo modo di procedere e produrre. E naturalmente dati, più o meno strutturati, più o meno stabili. Gli archivi sono sistemi complessi, frutto di una società complessa. Il sistema archivio riflette, in un rincorrersi di standard affannati, le difficoltà che la nostra realtà ha di riconoscere sé stessa. Occorre duttilità, ci vogliono competenza, pazienza e lungimiranza per passare dall’archivio complesso di documenti al sistema dell’archivio. Vanno forgiati nuovi strumenti, rivista l’episteme e il metodo. Definizioni obsolete, a partire da quella di archivio in senso stretto e tradizionale, vanno rimpiazzate. Perché la forma è sostanza. L’archivio è l’insieme delle cose e delle azioni che scatenano processi di informazione e memoria tracciabili e conservabili nel tempo. L’archivio è e sarà ciò che le macchine, intese in senso ampio, collocano in una porzione di spazio e di tempo a sostegno delle esigenze degli umani. L’archivio algocratico, segno di una civiltà onnivora, va governato dall’interno. Presto, subito, prima che sia troppo tardi. La stessa parola contesto va ripensata e allargata. Bisogna inseguirlo il contesto, anzi i contesti, a bordo di agili navicelle corazzate di metadati adeguati. Sapere di che ferro sono stati fatti gli archivi, di che impasto di bit. E pregare il futuro che aspetti. Che aspetti il tempo necessario, ad esempio, a ripensare il principio di provenienza. Ricondurre a un sistema complesso fatto di macchine e azioni e non solo di istituzioni diventa la provenienza. E poi ancora la fruizione potente e diluita, l’accesso a fantascientifici inventari ontologici. C’è di che scrivere nuovi manuali.

L’archivio digitale non è, accade. È una concatenazione di eventi che scatenano processi documentari fluidi, elettrici. Nelle pieghe dell’interoperabilità l’archivio digitale è un susseguirsi di avvenimenti determinati e tracciati dalle macchine. Lo stesso concetto di workflow che accompagna dagli albori il protocollo informatico è di fatto una concatenazione di eventi. Forse da sempre, a ben pensarci, l’archivio accade.

Dire che gli archivi non sono ma accadono non significa ovviamente negarne il dato materiale ineludibile. Significa piuttosto sottolinearne la costante dinamicità costitutiva e descrittiva. Non pensare, insomma, a monoliti dati per sempre ma a flussi informativi in costante evoluzione, con minore o maggiore intensità e complessità sia rispetto ai contenuti che alle finalità. Questo influenza anche la percezione di descrizione archivistica e l’azione stessa della descrizione, che vede accentuarsi la sua vocazione dinamica, come era del resto già stato sottolineato in ISAD(G). La raccolta dei metadati, di metadati complessi e non banalmente descrittivi, accompagna gli accadimenti che segnano l’evoluzione e la storia dell’archivio. Il metodo storico diventa allora un indicatore, un supporto strategico che insegna a seguire non più e non tanto le vicende del soggetto produttore ma i fatti archivistici che determinano l’assetto del complesso documentario. Il tutto viene portato agli estremi nel contesto digitale. Un archivio e soprattutto un archivio digitale, non è per sempre e non è sempre uguale a se stesso, tende appunto ad avvenire, a manifestarsi in sembianze cangianti, reagendo a fatti che non sono di natura puramente istituzionale. Gli stessi archivi storici più antichi, del resto, apparentemente pacificati nella conservazione permanente, stano conoscendo la forza di un fatto che si chiama digitalizzazione, che li scuote, li rimodula, talvolta li trasforma. E anche di questo bisogna tener conto in un presente che si configura denso di avvenimenti documentali. Gli stessi documenti del resto in molti casi si avviano a diventare episodi, aggregazioni congiunturali di dati che possono, come non possono, stabilizzarsi. Una memoria a pezzi, dunque, una memoria in marcia, una memoria che deve essere inseguita nelle pieghe dei contesti tecnologici, nella comprensione di tutti quei fenomeni che mentre la generano tendono a divorarla.

L’archivio dunque non è un’entità data a priori solo dagli assetti istituzionali e organizzativi di un soggetto produttore o da un’azione classificatoria in qualche modo avulsa. Sono i fatti a determinarlo, le azioni a configurarlo. Se questo è vero, come sembra essere vero, ne deriva che piuttosto che ai documenti il concetto di ordine in un contesto digitale deve essere applicato agli avvenimenti. L’archivio è ordinato nella misura in cui sono ordinati o almeno noti e definiti i procedimenti, ovvero le azioni, che lo scatenano e lo generano. Il metodo allora non guarda solo al complesso dei documenti ma anche e soprattutto alle procedure che lo ingenerano. Occorre ampliare il concetto di archivio inteso come complesso di documenti a quello di sistema archivio[25]. Il sistema archivio comprende oltre ai documenti (ai dati) le persone (intese anche come unità organizzative), gli strumenti e le procedure usate per dar luogo ai dati e conservarli. L’ordine deriva dalla conoscenza a priori del sistema archivio, il manuale di gestione diventa per certi versi la bibbia dell’ordinatore. Un ordinatore che persegue però i suoi fini nella fase iniziale del ciclo vitale, prima che le vicissitudini digitali possano disperdere l’archivio. L’ordine va previsto. Quasi preesiste all’archivio. L’archivio digitale, se lo vogliamo difendere nella sua dimensione storica, impone comportamenti e procedure rigorose. Passare dal concetto di riordinamento a quello di ordinamento significa proprio questo, ribaltare i tempi dell’intervento, porre il valore di memoria come fondante della progettazione dell’archivio. Il metodo storico in questo senso serve sempre, come capacità di analisi dei meccanismi della produzione ma diventa strumento di progettazione piuttosto che di ricostruzione. Il principio di provenienza diventa capacità e volontà di generare e monitorare flussi documentali ascrivibili a uno o più soggetti. Va insomma costruito, non applicato a posteriori. Il db dei procedimenti è l’ordine originario, lo specchio tanto amato.

Anche se molte restano le incertezze lungo un percorso che per il momento si riesce solo a intravedere. La prima perplessità è quella relativa alla capacità che gli archivisti hanno di incidere realmente su un processo che come un vento furioso strappa loro dalle mani il controllo della memoria. Entrare nell’ordine di idee del ribaltamento di tempi e prassi è importante ma altrettanto importante è acquisire un’autorevolezza che al momento non sembra esistere. Autorevolezza che va di pari passo con la consapevolezza del ruolo individuale e delle responsabilità politiche. Di una politica che semplicemente non vede gli archivi e la questione archivistica perché non vede neppure sé stessa, incapace come è, per intrinseca debolezza culturale dei suoi protagonisti, di riconoscere quella immaginazione, quella capacità progettuale che dovrebbe esserne l’essenza.

Ma dicevamo sopra che all’archivistica sembrano occorrere nuovi manuali, nuovi assetti disciplinari[26]. C’è da combattere una battaglia, se così la possiamo chiamare, per conciliare le molte anime della disciplina. Si manifesta l’archivistica plurale[27] che si confronta con il vecchio ed il nuovo, con il passato e con il futuro. Che non intende dimenticare e non vuole abdicare. Nel momento in cui l’edificio archivistico sembra sbriciolarsi sotto il peso di spinte oggettivamente più grandi di lui bisogna riuscire a trovare, con la determinazione che deriva da una solida tradizione, un colpo d’ala, uno slancio verso il futuro. Un errore gravissimo sotto tutti i punti di vista sarebbe quello di cedere a una dimensione che potremmo definire paleografica. Chiudersi cioè nel passato, rinunciando a giocare la partita del presente. Errore altrettanto grave, però, sarebbe quello di dimenticare le radici, il bagaglio metodologico, le competenze sedimentate nel corso dei secoli. E’ chiaro che siamo ad una fase nuova della storia dell’archivistica, che non è neppure più quella postmoderna. Questa archivistica, a volerla definire, è un traghetto sociale e culturale. Non si può cavarsela con l’etichetta di archivistica informatica o digitale. Sarebbe un errore anche questo, un taglio inopportuno con la continuità del passato. Dobbiamo parlare di archivistica tout court e poi declinarla in specializzazioni puntuali. Ma la radice etica, deontologica, pragmatica deve essere quella. Archivistica come governo degli archivi e quindi delle cose. Archivistica come supporto alla coscienza critica di una civiltà di dati e dai dati talvolta sopraffatta L’archivistica è qualità, l’informatica quantità, sia pure efficiente

L’ordine è divino quindi non è dato agli umani. Eppure si deve tendere all’ordine, alla contestualizzazione, al governo dei dati, se non vogliamo che i dati e le macchine governino noi. Ecco, ciò che resta del metodo storico ci insegna forse questo. Ci insegna il bisogno di risalire all’origine, di inseguire nei flussi documentali un senso possibile, un contesto credibile. Senso e contesto, è vero, si dilatano, diventano altro da un semplice profilo istituzionale. Ci serve il plurale. Contesti. Sfrangiati, interoperabili, semi automatici, schiacciati sotto il peso dei dati ma contesti. L’archivistica, la pratica archivistica con i suoi strumenti, diventa allora un inseguimento, una battaglia intorno e con le informazioni. Il lavoro di secoli, “ombra dei padri” ci dice che è possibile, che la quantità non sgomenta. I grandi archivi preunitari domati, o almeno addomesticati, con il metodo storico sono monumenti alla fondamentale incoscienza archivistica. Il risultato di una battaglia con la quantità della memoria, dato che rimane troppo spesso sullo sfondo. Il principio di provenienza, prassi filologica di ordinamento, diventa capacità di generare e interpretare sequenze di metadati. Si può fare. Servono appunto incoscienza e ricerca. La ricerca archivistica di punta non deve indugiare più su un passato che il metodo con le sue rivisitazioni sa comunque governare. Si sofferma sulla descrizione, sulla restituzione, su nuovi modi di raccontare il passato e poi si scaraventa nel futuro. Per capire cosa del suo modo di fare si debba cambiare. A cominciare dal rapporto tra ordine e disordine. L’ordine e il disordine. Due stati apparentemente antagonisti. Dall’uno si può procedere all’altro e viceversa. L’uno presuppone l’esistenza dell’altro e lo elide. Per negazione. Apparentemente. Almeno fino a quando non si applichino queste categorie a un archivio dove l’ordine e il disordine si rincorrono armonicamente, si completano fisiologicamente. L’ordine, o, meglio, il riordino secondo la struttura è il nemico istituzionale del disordine archivistico. Ma questo schema non è più sufficiente. A restituire l’ordine non è più solo un’analisi intellettuale a posteriori. Non si attinge più all’interpretazione vagamente mitizzante e mitizzata del soggetto produttore. Perché il soggetto produttore esce dalle nebbie inebrianti del mito. Si siede con noi. Non più arguta ricostruzione archetipa ma presente sparso a piene mani sul futuro. L’azione si moltiplica, il rapporto non è più uno a uno ma molti a molti. Soggetti plurimi e interoperabili e interoperabili e plurimi archivi. La struttura, liquido amniotico di un tempo trascorso, trema alle fondamenta. Non più documenti ma dati che corrono lesti incontro a altri dati. L’ordine è il flusso frenetico dei dati. È vettoriale. Intreccio di bisogni e memoria. È lecito chiedersi che ne sarà di memoria, dea vacillante, in questa nuova temperie. L’ordine non si fa, l’ordine è, conferito da automi sferraglianti capaci di prodigi tassonomici e seriali, divoratori di algoritmi inesistenti in natura. Dal metodo storico alla classificazione automatica: forse la fine della memoria come gigantesco fenomeno di soggettività collettiva. O, più semplicemente, un futuro fatto di archivi governati da un nuovo metodo storico. Che guida l’ordine, non il riordino.

 

 

FEDERICO VALACCHI

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

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[1] Grateful dead, Walk in the  sunshine

[2] ⁠Leopoldo Sandri, «Il De archivis di Baldassarre Bonifacio», Notizie degli Archivi di Stato 10, n. 3 (1950): 110.

[3] D’obbligo la citazione: ⁠Linda Giuva, Stefano Vitali, e Isabella Zanni Rosiello, Il potere degli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea (Milano: Mondadori Bruno, 2007).

[4] ⁠Carlo Rovelli, L’ordine del tempo (Milano: Piccola Biblioteca Adelphi, 2017), 93.

[5] ⁠Antonio Panella, «L’ordinamento storico e la formazione di un Archivio generale in una relazione inedita di Francesco Bonaini», Archivi 3, n. 1, serie II, (1936): 36–39.

[6] Carlo Rovelli, L’ordine del tempo (Milano: Piccola Biblioteca Adelphi, 2017), 79–82.

[7] ⁠Claudio Pavone, «Ma poi è tanto pacifico che l’archivio rispecchi l’istituto?», Rassegna degli Archivi di Stato XXX, n. 1 (1970): 145–49.

[8] Marco Bologna, «La sedimentazione storica della documentazione archivistica», in Archivistica. Teorie, metodi, pratiche (Roma: Carocci, 2014), 213.

[9]  Come sintesi di un dibattito lungo e articolato si rimanda qui a un classico della manualistica il cui titolo è fortemente indicativo della percezione delle essenziali funzioni dell’archivista e del suo ruolo: ⁠Paola Carucci, Le fonti archivistiche: ordinamento e conservazione (Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1983). E in particolar modo nella ristampa più recente ⁠Paola Carucci, «L’ordinamento», in Le fonti archivistiche: ordinamento e conservazione (Roma: Carocci, 2008), 137–78. Per una sintesi bibliografica sui temi dell’ordinamento e dell’inventariazione si veda anche ⁠Giorgia Di Marcantonio, «Bibliografia ragionata», in Diventare archivisti. Competenze tecniche di un mestiere sul confine, a c. di Federico Valacchi (Milano: Editrice Bibliografica, 2015), 183–206.

[10] ⁠Amedeo Benedetti, «L’Inventario dell’Archivio di Stato di Lucca di Salvatore Bongi», Cluture del Testo e del Documento 13, n. 93 (2012): 103–22.

[11] ⁠José Saramago, Alabarde alabarde (Milano: Feltrinelli, 2014), 55–56.

[12] ⁠Elio Lodolini, Storia dell’archivistica italiana: dal mondo antico al XX° secolo (Milano: FrancoAngeli, 2001), 140–41.

L’art. 7 del Regio Decreto 27 maggio 1875, n. 2552 per l’ordinamento generale degli Archivi di Stato recita:

Gli atti di ciascuna sezione sono disposti separatamente per dicastero, magistratura, amministrazione, corporazione, notaio, famiglia o persona, secondo l’ordine storico degli affari o degli atti.

 

[13] ⁠Isabella Zanni Rosiello, Archivi e memoria storica (Bologna: Il Mulino, 1987).

[14]  ⁠«Portali tematici SAN», consultato 28 aprile 2018, http://san.beniculturali.it/web/san/archivi-tematici.

[15] Francesca Romanelli Cavazzana, «Quasi in lucido specchio». Un filo rosso e variegato», in Storia degli archivi, storia della cultura. Suggestioni veneziane (Venezia: Marsilio, 2016).

[16] Claudio Pavone, «La storiografia sull’Italia postunitaria e gli archivi nel secondo dopoguerra», in Intorno agli archivi e alle istituzioni. Scritti di Claudio Pavone, a c. di Isabella Zanni Rosiello (Roma: Ministero per i beni culturali e le attività culturali. Dipartimento per i beni archivistici e librari. Direzione generale per gli archivi, 2004), 250.

[17] ⁠Carucci, Le fonti Arch. Ordinam. e Conserv.

[18] ⁠International Council on Archives – Experts Group on Archival Description, «Records in Contexts. A conceptual model for Archival Description. Consultation Draft v0.1», 2016, consultato il 28 aprile 2018, https://www.ica.org/sites/default/files/RiC-CM-0.1.pdf.

[19] ⁠Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica (Milano: Adelphi, 2014), 20.

[20] ⁠Giovanni Michetti, «Ma è poi tanto pacifico che l’albero rispecchi l’archivio?», Archivi & Computer 1 (2009): 85–95.

[21] ⁠Stefano Vitali, «La descrizione degli archivi nell’epoca degli standard e dei sistemi informatici», in Archivistica. Teorie, metodi, pratiche, a c. di Linda Giuva e Maria Guercio (Roma: Carocci, 2014), 179.210.

[22] Carucci, «L’ordinamento», 140.

[23] Bruce Sterling, «The mysterious visit of mr. Babbage»,  Archivio, 1 (2017): 20 – 28.

[24] Carlo Batini et al., «From Data Quality to Big Data Quality», Journal of Database Management 26, n. 1 (2015): 60–82.

[25] ⁠Giovanni Michetti, a c. di, L’archiviazione, OAIS (Open archival information system). Sistema informativo aperto per l’archiviazione (Roma: ICCU, 2007).

[26] Per una disamina critica si veda ad esempio: Isabella Massabò Ricci e Marco Carassi, Scritti di teoria archivistica italiana. Rassegna bibliografica (Roma: Ministero per i Beni e le Attività culturali. Ufficio centrale per i beni archivistici, 2000); Giorgia Di Marcantonio, «Il vasto panorama della bibliografia archivistica. Una disciplina al confine tra tradizione e innovazione», Biblioteche Oggi Trends 2, n. 2 (2016): 59–66.

[27] Federico Valacchi, «Archivistica, parola plurale», Archivi 13, n. 1 (2018): 5–28.

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