Il circolo virtuoso

Veemente dio d’una razza d’acciaio,
Automobile ebbrrra di spazio!,

Isaac Asimov scriveva nel 1954 che “torneremo alla terra…ma su mondi diversi”.

Isaac Asimov scriveva nel 1954 che “torneremo alla terra…ma su mondi diversi”.

La predizione fantapolitica suggeriva allora un moto circolare che trasmetteva in un futuro indefinito tradizioni antropologiche e culturali incardinate su patrimoni genetici ancestrali. Allo stesso modo oggi possiamo immaginare di tornare agli archivi, e cioè a una molecola complessa del nostro DNA, contemplandoli dentro a scenari diversi. Potrebbe esserci possibile atterrare su nuovi mondi scintillanti, appunto, ma pilotati da un’esperienza secolare, garanzia di una trasformazione coerente e capace di arginare la caduta nel vuoto  di valori ogni giorno più traditi.

Generare e poi chiudere un circolo virtuoso che ci porti dagli archivi agli archivi è ormai una questione di sopravvivenza, un’urgenza che la stessa congiuntura sanitaria vagamente millenaristica che stiamo attraversando enfatizza. Non si tratta però in nessun modo di vagheggiare il ritorno alla normalità, magari aumentata. Un concetto come normalità, del resto, ha da sempre poco senso nel susseguirsi diacronico degli avvenimenti e delle interpretazioni che per brevità chiamiamo storia. L’inesausto inseguirsi dei fatti e delle cose non ha mai nulla di normale, la natura non fa salti ma neppure scorre pacifica e immutabile lungo l’asse del tempo. Soprattutto qui e ora dobbiamo allora cercare di anticipare il futuro grazie a quello che sappiamo del passato, evadendo da un presente afono.

Il modello archivistico che tra un rabberciamento e l’altro continuiamo a onorare, e che una classe dirigente balbettante su tutto nemmeno riesce a vedere, ha dato ormai il meglio di sé. Non possiamo che essere profondamente grati a chi lo ha pensato e messo sulle gambe, sintetizzando con rara efficacia almeno un secolo di dibattito e creando i presupposti concreti per una lunga stagione di affidabilità archivistica. Si tratta infatti di un modello che è andato oltre ogni ragionevole aspettativa di durata, riuscendo quasi miracolosamente a tenere botta a cambiamenti che nessuno allora – diciamo intorno al 1963, per individuare un tempo misurabile – poteva prevedere. A fare da sfondo a tali e tanti fatti nuovi c’è stata intanto la comparsa sulla scena del MIBACT, con tutto quello che ha significato in termini di progressivo riposizionamento della percezione archivistica nella sua interezza. E poi, sul versante metodologico e applicativo, gli anni della Guida Generale con annessi e connessi, e, più tardi, il lungo dibattito sugli standard e la crescita esponenziale di abitudini e risorse descrittive digitali che ci hanno portato davvero alle soglie di nuovi mondi possibili, senza ovviamente tralasciare le conseguenze mirabolanti dell’introduzione e dell’affermazione dei documenti informatici stricto sensu. Gli assetti attuali e il loro affanno ricorrente e crescente hanno insomma un magnifico futuro dietro di sé. Ma ormai, come cercheremo di dimostrare, serve altro. Ci vuole un compasso nuovo, che permetta di tracciare circonferenze futuribili dentro le quali sia ragionevolmente possibile inscrivere scenari realistici e sostenibili per le discipline documentarie. L’innata carica creativa e il rigore giuridico e scientifico di queste scienze rappresentano l’antidoto migliore per scongiurare un’eclissi paradossale, per effetto della quale i contorni delle discipline di organizzazione delle informazioni rischiano di sbiadirsi proprio dentro a una società sempre più attestata sul valore dell’informazione stessa. Ma i prerequisiti metodologici e la tradizione consolidata non sono concetti semoventi. Sono piuttosto modelli che hanno bisogno di gambe su cui muoversi e di braccia per agire. Per fare gli archivi cui vorremmo tendere ci vogliono gli archivisti, è semplice. Ma ci vuole allora anche la capacità di fare squadra, di coordinare e coagulare approcci, interessi e strategie.

In questo senso mi sembra un buon segnale il fatto che, non molto tempo fa, per la precisione l’8 ottobre del 2020, l’associazione professionale degli archivisti e quella dei docenti universitari di archivistica abbiano varato congiuntamente un’iniziativa articolata in due giornate di lavoro, lanciando un segnale concreto sulla strada di una collaborazione che c’è da augurarsi possa divenire sempre più ampia, solida e circostanziata. In maniera molto condivisibile le due giornate sono state raccolte sotto il titolo “La crisi degli archivi: un’emergenza democratica”. Le ragioni profonde della questione archivistica risiedono infatti proprio qui, nel richiamo forte al ruolo civile, pubblico, e democratico degli archivi, cioè in una percezione, al tempo stesso etica e strumentale, assolutamente propedeutica ad ogni concreta e diffusa utilizzazione dei patrimoni documentari.

Che gli archivi siano figli di presenti e di bisogni tangibili di quei presenti è un fatto. Come è un fatto che troppo spesso lo si dimentica, riducendo la dimensione documentaria ad un supporto più o meno affidabile e generico della rievocazione di passati di ogni ordine e grado. Tornare a sottolineare la funzione civica degli archivi aiuta invece a smarcarsi da una ingombrante monotematicità culturale e apre i complessi documentari a destinazioni d’uso che non sono certo una novità ma che difficilmente nell’immaginario collettivo vengono realmente ricondotte al ruolo immediato degli archivi nel loro complesso. Sarebbe un successo riuscire tornare a collocare gli archivi nella sfera dei bisogni primari, che compete loro per rango e tradizione, e renderne tangibile il ruolo decisivo nel reale progredire di una società data.

Questo significa declinare una crisi di lunga durata anche e soprattutto in termini progettuali e politici di ampio respiro, se davvero si vuole provare ad uscirne.  Le strategie fin qui tentate sono state a prevalente trazione estatico/culturale. Si è tentato cioè di convincere un’opinione pubblica manifestamente riottosa a prendere atto dell’ineluttabile bellezza degli archivi, sommo bene per ogni archivista. Questi metodi non hanno però funzionato in pieno, anzi. Le molte e molto interessanti iniziative di valorizzazione che si sono susseguite negli anni hanno avuto e hanno un loro valore culturale intrinseco. Se le collochiamo però in una inquadratura grandangolare, si rivelano sassolini lanciati in uno stagno, a generare cerchi concentrici che non si propagano oltre l’interesse dei soliti noti. Non bucano lo schermo della pubblica indifferenza, si potrebbe dire. Iniziative del genere devono continuare e moltiplicarsi ma non sono la risposta strutturale che ci serve, ammesso poi che una risposta esista. Sono solo un pezzo della soluzione e, al tempo stesso, con il loro affanno, segnalano il bisogno di rivedere l’idea che tutti (più o meno tutti) abbiamo avuto della comunicazione archivistica. Di un tipo di comunicazione introflessa, destinata a rinchiudersi dentro a sistemi valoriali che l’opinione pubblica, avvezza a ben altri tipi di input, non vede e non riesce a metabolizzare.

E’ inutile qui perdersi ancora una volta alla ricerca delle cause di questo dato di fatto. Si può indignarsi quanto si vuole, ed è legittima una valutazione desolante del profilo sociale e culturale che connota la nostra contemporaneità trash. Ma, detto questo, indignandoci corriamo solo il rischio di fare ancora di più a brandelli vesti da troppo tempo stracciate. Ci siamo illusi che lo story telling archivistico fosse il canale giusto, talvolta in analogia con discipline a noi vicine o con loro derivati come la public history. L’idea di raccontare gli archivi, della narrazione, ci ha sedotto. Forse, però, ci siamo sbagliati, o, meglio, abbiamo colto determinate opportunità comunicative subordinandole a presupposti e pre-giudizi di lungo periodo, con approcci e obiettivi nati vecchi o, almeno, tarati male rispetto al livello reale degli interlocutori.

Cosa significa, infatti, narrare un archivio se andiamo all’osso della questione? Tutto e nulla direi. E’ senza dubbio narrazione la descrizione archivistica, ma le sue ineludibili peculiarità non ne fanno uno strumento di comunicazione massiva. Percorsi tematici come quelli di SAN o allestimenti documentari digitali a vario titolo, che muovono da quella descrizione, possono intercettare l’immaginazione di alcuni, alleggerendo il peso del rigore di dominio. La sensazione però è che nel complesso questo tipo di racconto alla fine sia ascoltato da pochi e non serva a rompere l’accerchiamento comunicativo.

Di queste strategie non si discute lo specifico valore assoluto, e neppure l’affabilità consolatoria, ma piuttosto l’efficacia nel rappresentare un più ampio sistema di valori e la capacità di espansione effettiva fuori dagli archivi. Come avremo modo di tornare a sottolineare, perciò, il problema non sta nei contenuti o nella cifra stilistica più o meno suadente, ma nell’individuazione di obiettivi di più ampia portata e nella ricerca di ulteriori spazi comunicativi, fin qui poco o pochissimo frequentati dagli archivisti. Ma, se questo è vero, bisogna mettere davvero sul piatto della bilancia il valore pubblico e di pubblica utilità degli archivi e il tentativo convinto di diffonderlo. 

Se vogliamo davvero giocare a carte scoperte dobbiamo ammettere che la via d’uscita non risiede nell’insistenza di far condividere un incompreso senso estetico di matrice storico/culturale, fatto di approcci in ultima analisi elitari. Bisogna ribaltare i termini della questione, far leva sulla forza enorme della polifunzionalità degli archivi, dicendo a chiare lettere che la loro importanza sta nel fatto che essi servono a tutto. Non raffinati percorsi di volatile memoria o, almeno, non solo quello, ma strumenti imprescindibili senza i quali una società organizzata non può sopravvivere. Diciamo in sintesi che bisognerebbe far passare di più il messaggio che senza un archivio l’unico profilo possibile per il cittadino è quello dell’apolide in patria. “Correr es mi destino por no llevar papel”.

Partiamo allora da una certezza: gli archivi fanno bene al Paese. Anzi, quando sono gestiti come si deve, gli fanno benissimo, soprattutto in termini di trasparenza, efficienza e democrazia realmente partecipata, cioè di identità quotidiana. Un’identità che non sia solo ricerca di mitiche radici ma qualifichi la vita di ognuno ogni giorno, contribuendo a creare comunità di interessi e progettualità, un’identità che guardi ai pronipoti e non ai trisavoli.

Come sappiamo bene la questione archivistica – e aggiungerei purtroppo- non è solo un problema di riconoscimento e di percezione del sé professionale degli archivisti. Se così fosse sarebbe già meno grave, tutto sommato, e potrebbe basterebbe qualche gruppo di auto aiuto. La crisi degli archivi, come ricorda proprio il titolo dell’iniziativa ANAI/AIDUSA che abbiamo già ricordato, è invece la crisi di una società. La corretta gestione dei documenti non è un vezzo archivistico ma un bisogno primario di ogni organizzazione umana di minima complessità. E’ qualità della vita, non arcadica retroflessione del pensiero.

Della patente questione archivistica sono investiti tutti i cittadini, ad ogni livello, a prescindere dalla loro effettiva consapevolezza. Porvi rimedio, o almeno tentare di farlo, è quindi un dovere pubblico, un’ulteriore responsabilità di chi invece quella consapevolezza ce l’ha.

La prospettiva corretta per poter valutare il problema è con ogni probabilità quella dell’educazione civica, ancora prima che dell’archivistica, senza dimenticare, in piena congiuntura digitale, il ruolo dell’information literacy e quindi della cultura di una corretta valutazione dei potenti flussi informativi dentro ai quali siamo immersi. Se valutiamo il problema da questa angolatura viene fuori il bisogno di collocare in equilibrio reciproco diversi fattori che vanno dal senso profondo di una professione al ruolo pubblico degli archivi, passando per un uso critico e consapevole degli strumenti e di quelli digitali in particolare. Cercare un rimedio, quindi, significa prima di tutto lavorare in profondità su noi stessi in quanto archivisti, indagare sulle nostre priorità e sui nostri obiettivi di medio periodo. E significa anche e soprattutto prendere atto di un ruolo fortemente trasversale dentro al presente in modo da ribaltare paradigmi obsoleti, esercitando una funzione connettiva tra le diverse competenze che ormai occorrono per definire in senso ampio la parola archivio.

Ribaltare paradigmi significa però innanzitutto agganciare la riflessione complessiva al concetto di polifunzionalità utile dei sistemi documentari. Da lì sarebbe più semplice muovere verso una strutturale ridefinizione politica, culturale e normativa del nostro mondo o, meglio, del nostro modo di essere. La parola chiave è proprio polifunzionalità, cioè affermazione sostenibile di un ruolo strategico degli archivi dentro a tutti i meccanismi portanti della società. Avvertire l’alto livello strategico di questo tipo di percezione significa tornare a porre la massima attenzione alla dimensione corrente dei fenomeni archivistici che ormai peraltro si sviluppano dentro a cicli di vita eccentrici, fatti di continui ritorni al presente per garantire il futuro.

In questa circolarità si coglie facilmente l’opportunità doverosa di riprogrammare il tempo archivistico sia nella sua progressione diacronica (ogni tempo è un tempo archivistico) sia nella sequenza delle azioni che esso induce (battere sul tempo il tempo per gestire adeguatamente gli archivi contemporanei).

Un approccio di questo tipo, che ha tra i suoi obiettivi primari anche la difesa di valori storici e culturali, ci suggerisce di spostare il tiro e riprogrammare le priorità, a partire da una comunicazione destinata a tararsi sul presente, se non esplicitamente sul futuro. Il messaggio non può più essere “venite negli archivi perché sono belli e vi faranno sentire migliori ricordando il passato” ma, piuttosto, “attenzione, senza archivi non c’è presente e quindi non sopravvivrete a lungo”. Gli archivi come strumenti, non come residuo inorganico.

Sul versante strettamente professionale si tratta anche di riappropriarsi di spazi e ruoli che in assenza di azioni archivistiche incisive sono stati occupati da altri profili e definiti da altri valori. Esemplare in questo senso il caso delicato, importante e complesso della conservazione digitale e dei conservatori accreditati, fenomeni il cui controllo è sostanzialmente nelle mani dell’Agenzia per l’Italia Digitale senza una reale compartecipazione della Direzione Generale degli Archivi, come sarebbe stato auspicabile. In questo caso AGID non è “cattiva” e in linea generale neppure i conservatori lo sono a prescindere. Anzi, stando così le cose, alla luce di un’analisi delle competenze complessive e delle risorse infrastrutturali che il MIBACT può mettere in campo al riguardo, ha un suo peso il fatto che nel teatro della conservazione digitale si muovano almeno questi attori. I soggetti al momento attualmente coinvolti nella conservazione digitale hanno però un imprinting di un certo tipo e interpretano inevitabilmente i processi conservativi alla luce di codici ed esigenze distinti da quelli strettamente archivistici. Secondo una semplice legge di natura questi soggetti si espandono all’interno di spazi non altrimenti presidiati, applicando modelli consoni alla loro natura e ai loro obiettivi. Anche in questo caso ad avere torto sono come sempre gli assenti. Tra l’altro, sia detto incidentalmente, non si può nemmeno più sostenere che la conservazione digitale sia ancora quel miraggio metropolitano a lungo alimentato da una diffusa sensazione di impotenza nei confronti della intangibilità degli oggetti della conservazione stessa. La ricerca è andata avanti, sia nel contesto italiano che in quello internazionale, e ha definito i parametri etici, metodologici e applicativi di un processo magari complicato e costoso ma per nulla fantascientifico. Non mancano studi e ricerche orientati al valore dell’archivio come risorsa e a una valutazione della penetrazione dei processi di dematerializzazione, sviluppati a partire da presupposti archivisticamente condivisibili e orientati anche al tema della conservazione. Di questo stato di cose si iniziano del resto a cogliere segnali concreti anche nei percorsi formativi, a dimostrazione di una metabolizzazione ormai manifesta.

Non ci muoviamo quindi su terreni inesplorati né siamo chiamati ad affrontare mostri inauditi e sconosciuti. La conservazione digitale, al momento ancora punto dolente nella sua dimensione fattuale, non è una pratica miracolosa. Sappiamo da tempo come farla, quello che manca è una visione politica che ne sappia percepire l’esistenza e la portata. Il problema, infatti, sembra invisibile alla politica e il ritardo accumulato colora di utopia la speranza di evoluzioni normative indispensabili a definire un quadro conservativo pubblico organico e sostenibile.  Non c’è consapevolezza della assoluta rilevanza strategica della conservazione, e non c’è consapevolezza perché non c’è una coscienza pubblica e civile che sappia avvertire i rischi della dilapidazione di memoria quotidiana cui siamo esposti, non certo per colpa della labilità digitale. Dilaga un impolitica incosciente, dando al termine il suo significato letterale di assenza di coscienza e consapevolezza della questione archivistica. E’ vero che nella dimensione archivistica contemporanea esistono problemi metodologici, incertezze concettuali, difficoltà tecniche e resistenze al cambiamento di natura antropologica. Ma sicuramente non sono questi i maggiori ostacoli.

L’archivistica per parte sua sta cambiando, anzi è già cambiata. Si è fatta plurale nel dar conto del marcato polimorfismo che accompagna una parola, archivio, che con tutta evidenza non basta più a sé stessa.  Archivio è ormai termine simbolo più che un’espressione tecnica capace di formalizzare una concettualizzazione puntuale. La sua nota polisemia, che ne ha fatto da sempre un’espressione per tutte le stagioni, esce ulteriormente amplificata da anni densi di inesorabili trasformazioni. Le istituzioni, gli amati soggetti produttori, non sono più le stesse, cambiano i loro assetti organizzativi, le dinamiche funzionali che ne regolano le attività e gli stessi strumenti attraverso i quali esse perseguono i loro obiettivi.  Si modifica l’essenza e l’apparenza dei documenti, sempre più figli dell’interoperabilità e spesso risultato di volatili e cangianti aggregazioni di dati che provengono da contenitori diversi. Cambiano i luoghi, i tempi e le emergenze della conservazione, dentro a logiche delocalizzate che impongono processi di dinamico monitoraggio e non si accontentano più di stoccaggi in sicurezza.

Le società, da cui invariabilmente scaturiscono gli archivi, sono in subbuglio, si fanno altre da sé stesse e ci impongono di definire nuovi equilibri documentali, che siano in grado di sorreggerne le dinamiche violentemente accelerate.

Il problema, poi, non si limita alla dimensione corrente e digitale del fenomeno documentario.Anche ciò che si staglia in apparente serenità dietro alle nostre spalle, gli archivi che chiamiamo “storici”, è infatti oggetto di rivisitazione, di revisioni descrittive, di nuove interpretazioni e di nuovi possibili usi. In generale il metodo archivistico è storicamente uno strumento fluttuante che ogni nuovo punto di vista sugli archivi può mettere in discussione. E’ accaduto in passato con il traghetto che ci ha portato attraverso il Novecento dalle posizioni di Cencetti a quelle di Pavone e alle successive evoluzioni e può quindi accadere di nuovo.

La digitalizzazione, termine che avremo modo di chiarire e disambiguare, ha un suo ruolo in questi processi, ma non è necessariamente protagonista assoluta e incontrastata. Anche sul terreno degli archivi informatici “puri”, del resto, le dimensione tecnologica è una componente importante ma non esclusiva e, in ultima analisi, non è così dirimente come si sarebbe portati a credere. Le discipline documentarie devono essere attente alle ICT ma, al tempo stesso,occorre che restino pienamente padrone del loro destino senza nulla concedere a deleghe sbrigative e controproducenti. Siamo dentro a un processo evolutivo. Non credo si debba parlare di rivoluzioni ma della fatica – ben nota a chi studia gli archivi- che si fa ad adeguarsi a trasformazioni che da sempre l’archivistica ha dovuto registrare e metabolizzare. Magari con l’unica e non irrilevante differenza che stavolta dobbiamo fare i conti con accelerazioni davvero violente e con gli strappi che inducono.

Nello specifico se l’archivistica esiste ancora – ed esiste, malgrado molte apparenze – non ha allora bisogno di etichette e glosse che la precisino. Abbiamo già l’archivistica non ci serve una definizione confusa di archivistica informatica, naturalmente a patto di riconoscere la dimensione plurale, declinandola coerentemente dentro a bisogni spesso radicalmente diversi ma figli di un medesimo approccio metodologico e di un sistema valoriale inossidabile. Abbiamo bisogno, mi sembra, di un rapporto definitivamente pacificato con le tecnologie disponibili, fuori da ogni complesso di inferiorità o, peggio, di superiorità.  Le cose che maneggiamo sono ormai composti chimici inesistenti in natura, agglomerati di particelle e percezioni ibride sospese tra analogico e digitale e impastate di una fisicità mista. La stessa parola realtà si è scontornata e si è ridefinita dentro al gioco di specchi che rinvia dalla concretezza fisica di oggetti empiricamente tangibili alla diversa solidità concettuale ed espressiva dei mondi superficialmente definiti “virtuali”. La nostra quotidianità è ad ogni livello un ibrido caratterizzato da incursioni ripetute nell’una e nell’altra dimensione, un’esistenza, come si dice, onlife. Questa miscela di possibili e alterne realtà si è manifestata naturalmente anche nella sfera archivistica, sia pure avanzando con una certa cautela e non senza incontrare resistenze.

L’accelerazione impressa al rapporto tra archivi e ICT, con le sue diversificate implicazioni, almeno a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha comunque creato le premesse per un sensibile riposizionamento disciplinare, aprendo la strada a soluzioni di indubbio valore innovativo e portando a compimento almeno una prima fase del processo di digitalizzazione delle risorse archivistiche. Bisogna prenderne atto, non senza legittima soddisfazione, proprio nel momento in cui si profilano nuove risorse, nuove possibili soluzioni e nuove prospettive di impatto anche metodologico.

Inevitabile in questo senso non lasciarsi affascinare dai processi più evoluti di intelligenza artificiale, per quanto essi possano suscitare qualche timore sui destini dell’umano controllo della realtà o, almeno, della realtà archivistica. La congiuntura digitale che ammicca alla gestione pararobotica dell’informazione non va però sopravvalutata o demonizzata, ma semplicemente studiata. E governata. Come avremo modo di ribadire l’intelligenza artificiale in prospettiva può e deve essere anche un fatto archivistico. Dalle tavolette di Ebla alle viste documentali l’archivistica ha sempre inseguito ogni forma di tecnologia di registrazione, conservazione e trasmissione dei dati e non c’è motivo per cui adesso debba rinunciare a questa sua prerogativa.

Se vogliamo muovere verso questi obiettivi, però, bisognerà intanto ripensare le strategie di ciò che con una parola spesso troppo generica definiamo digitalizzazione, avviandoci a superare la stagione descrittiva e “fotografica”, fatta di sistemi informativi e di riproduzioni più o meno calibrate di lotti documentari, magari selezionati con criteri tutti da verificare. Si è trattato di una stagione problematica ma proficua i cui frutti ci mettono in condizione di guardare avanti in direzione di modelli descrittivi interculturali e di dispiegamento della forte valenza trasversale dei contenuti archivistici dentro a contesti moltiplicati.

Mentre ancora ci si affanna a lenire ferite profonde e tutte analogiche di natura politica e culturale con applicazioni massicce di un digitale ingenuo, sostanzialmente datato e gestito in maniera talvolta artigianale, si può quindi iniziare a riflettere sul dopo, e cioè, come dicevamo, sulle strategie utili a diluire il rigor descriptionis dei nostri fondi dentro a scenari molto più vasti, trascinando gli archivi fuori dai loro confini e utilizzando finalmente il digitale per andare a pieno titolo incontro al ruolo pubblico che li dovrebbe connotare in profondità.

Parlare di digitalizzazione è però un esercizio retorico del tutto meccanico se prima non si riesce a pensare digitale. E il pensiero digitale che sembra servirci è quello che asseconda una reingegnerizzazione profonda dell’intera società, agendo sui suoi meccanismi essenziali. Il pensiero digitale per potersi dispiegare ha bisogno di riforme strutturali e non di iniziative congiunturali di basso profilo e scarso respiro progettuale che si risolvono in un uso quantitativo e illusorio delle risorse. Mette in gioco la percezione della realtà nel suo insieme, come dicevamo sopra, e non può essere lasciato in mano ad avventurieri poco informati delle specificità con cui si confrontano.

Come abbiamo già detto, però, tutto questo sarà possibile solo se si riuscirà a mettere realmente al centro della questione archivistica la polifunzionalità dei sistemi documentari di ogni tipo e a far comprendere davvero le molte possibili destinazioni d’uso degli archivi.

Per far questo però occorre prima di tutto coraggio. Il coraggio intanto di rescindere il  legame più o meno subliminale con una storia che inevitabilmente amiamo e ci rappresenta perché noi siamo stati a lungo quello stesso passato. E’ in qualche modo una scelta di vita, bisogna seguire il vento che soffia ormai da tempo, abbandonare un porto sicuro dove però stiamo inesorabilmente invecchiando sprecando anni e opportunità che non torneranno. Se non ci attrezziamo per il viaggio il nostro passato sarà sommerso dalle acque della contemporaneità e potremo al massimo guardarlo galleggiare con scarso costrutto. Come persone e come categoria, infatti, abbiamo un grande passato di fronte a noi ma la sua resistenza nel tempo dipende da noi.

Rescindere il legame non significa quindi rinnegare alcunché ma, più semplicemente, constatare che le strategie fin qui utilizzate non hanno pagato o, almeno, non pagano più e che quindi cambiare è inevitabile. Negli ultimi mesi, anche sulla scia degli strappi sociali trasversali indotti dall’epidemia, la comunità archivistica ha lanciato qualche tenue segnale in questo senso.  Si è tentato di interrogarsi dall’interno per aprirsi a un dibattito esterno che muovesse da più solide convinzioni e da più rassicuranti percezioni di sè stessi. Si tratta di tentativi ancora in fieri, frutto di pulsioni talvolta frutto di una disinterpretazione e di una sopravvalutazione dell’emergenza e delle sue conseguenze. Dei nostri problemi, come di quelli di molti altri settori, il virus è stato infatti un semplice acceleratore, un evidenziatore impietoso e per certi versi cinicamente neutrale.

La questione archivistica, intesa come attenzione critica ad un processo in costante evoluzione, ha origini antiche. Potremmo dire che esiste da sempre, ma ci sono stati momenti storici in cui essa è stata valutata, debitamente considerata e governata e altri in cui invece è stata abbandonata a sé stessa. Un’attenzione responsabile al tema si è registrata negli anni a cavallo dell’Unità, e nei dintorni del 1939 e del 1963. Poi gli archivi hanno imboccato un lento viale del tramonto, magari a tratti spezzato da guizzi di vitalità, sia pure quasi sempre di ordine descrittivo e applicativo e raramente di natura strutturale. C’è stata la Guida Generale, ci sono stati tanti inventari, abbiamo attraversato la lunga stagione degli standard e poi quella dei tentativi, spesso ridondanti, di regolamentazione della dematerializzazione, mentre su un altro versante crescevano i grandi sistemi informativi. Nel frattempo è nato il polisemico Ministero dei Beni Culturali con annessi e connessi sia dal punto di vista normativo che delle spesso labili politiche culturali. Insomma, l’archivistica è riuscita a sopravvivere a lungo a sé stessa, malgrado difficoltà crescenti. Negli ultimi decenni i  fatti nuovi sono stati molti e piuttosto rumorosi ma a ben guardare cosa è cambiato in profondità nel governo strutturale degli archivi  da sessant’anni a questa parte? Non molto, mentre, quasi senza capire, stavamo cambiando pianeta e si allargava il fossato tra la realtà e una sua rappresentazione fittizia fatta di norme e approcci destinati a una sempre più feroce obsolescenza. Un edificio che godeva di un certo prestigio è andato progressivamente deteriorandosi, malgrado la dedizione spesso ammirevole delle donne e degli uomini che lo abitavano e lo abitano nel tentativo di impedire il crollo finale. Nel silenzio ossessivo di ministri e direttori generali o in certi loro proclami vuoti, nell’ignoranza della classe politica e in più di un errore di valutazione della stessa comunità archivistica, il  moto di rivoluzione del pianeta è proseguito imperturbabile, la società è cambiata e gli archivi veri e non vagheggiati si sono trasformati. Niente che non fosse prevedibile, non servivano sfere magiche. La questione archivistica, ridotta all’osso, è soprattutto questo: ignorante disprezzo politico e inadeguatezza di fronte al presente e al futuro.

La cambiale sembra ormai davvero all’incasso. A mettere all’angolo gli archivi e l’archivistica non sono state tanto un’incontrollabile evoluzione tecnologica o una violenta crisi di crescita (che pure ci sono state) quanto una normalissima e costante evoluzione istituzionale, amministrativa, metodologica e tecnica cui non hanno fatto fronte scelte politiche e quindi normative e organizzative coerenti. Il risultato è che solchiamo un oceano piuttosto burrascoso su una barchetta a remi, pensata in altri momenti storici per navigare al massimo su un pacifico lago. A portare colpi durissimi al nostro modello organizzativo e conservativo non è una imponderabile eccezionalità ma una devastante continuità dell’incuria giuridica, sociale, politica e culturale degli archivi. Come sempre l’arma finale è l’ignoranza.

Mi sembra quindi che chi legge la crisi congiunturale in cerca di normalità e di ripartenze sbagli prospettiva e aggiunga la beffa al danno ignorando, o fingendo di ignorare, che il ritorno alla normalità sarebbe per gli archivi il miserere finale. Piuttosto che di una disastrosa normalità pregressa sembra ci sia bisogno di denunciare con fermezza i fattori di crisi strutturali e di operare scelte urgenti e profonde che sappiano appunto mettere avanti a tutto la polifunzionalità degli archivi in una visione di insieme che ne soddisfi i molti requisiti.

Da un’auspicabile e futura cabina di regia il film archivistico va visto nella sua interezza, non estrapolando ogni volta una manciata di fotogrammi che rispondono a bisogni e interessi estemporanei e soggettivi. Solo ridefinendo gli assetti complessivi si potrà poi dare davvero risposta anche alle molteplici e legittime esigenze dei singoli, uscendo dall’emergenza come normalità.

A questo livello prende corpo però un problema ulteriore, quello dei rapporti con i nostri interlocutori, che sono molti, preziosi, ma talvolta poco solidali o, quantomeno, poco interessati a soluzioni comuni. L’archivistica è una disciplina per sua natura trasversale e nel compito precipuo della mediazione sta già scritto il bisogno di confrontarsi con una raffica di bisogni e con altrettanti e spesso peculiari soggetti.

Ci sono intanto dei referenti di lunga data, come gli storici. Lo stretto rapporto con questa categoria di studiosi per l’archivistica è stato da sempre centrale ma in alcuni passaggi anche decisamente delicato, a fronte della tentazione di alcuni di fare della disciplina documentaria un umile supporto a studi ritenuti più alti. Acqua passata, sembra di poter dire, ma nel rapporto con questa particolare categoria di utenti si dovrebbe comunque cercare reciprocamente qualcosa di più dell’efficienza di un servizio. Ci servono storici che siano disposti ad accompagnarci nel viaggio attraverso il presente e verso il futuro perché la prospettiva storica è indispensabile per comprendere l’attimo e vivere consapevolmente quello che verrà. Credo anche che agli storici, soprattutto a quelli futuri, possa essere utile un esercizio archivistico consapevole e ben radicato nel presente. Una riflessione che li spinga a vedere gli archivi non più come una sorta di riserva di caccia dove esaudire i propri desideri di ricerca ma, piuttosto, come un luogo da cui si possa partire per progettare insieme una cultura storiografica e archivistica più penetrante.

Oltre agli storici, poi, proprio perché l’archivistica da sola non va in nessun posto, ci sono i tecnici, quelli dell’informazione in particolare. Con molti di loro parliamo da tempo e siamo debitori di soluzioni che ci hanno aiutato ad inscatolare in qualche modo il passato. Ai tecnici dobbiamo chiedere però risposte ai nostri nuovi bisogni, ammesso che li riusciamo a definire con puntualità. In qualche caso si deve tentare anche di frenarne l’impulso vitale, di rallentarne il passo, almeno nella dimensione applicativa, per darci il tempo di comprendere e adeguare la forza bruta tecnologica a modelli culturali, tecnici e psicologici che si nutrono anche di altro, soprattutto di altro. E poi, ancora, ci serve il confronto costante con i giuristi, perché la dimensione giuridica è connaturata all’archivistica: l’archivistica deve più al diritto che alla storia o, tanto meno, a una generica fermentazione culturale. Nei passaggi che ci attendono potere e sapere lavorare con chi conosce e plasma il diritto è perciò indispensabile. Senza dimenticare l’ingegneria istituzionale e tutte quelle competenze indispensabili a disegnare scenari operativi sostenibili, dal momento che le grandi riforme partono da entusiasmi visionari ma devono consolidarsi dentro contesti compatibili con gli assetti istituzionali della società cui sono destinate.

Si potrebbe continuare a lungo, parlando di interlocutori possibili e necessari, in prima battuta tutti quelli ricompresi nel dominio delle discipline documentarie genericamente intese e, per certi versi e più marginalmente, delle cosiddette digital humanities ma, nell’ottica in cui ci poniamo, ad essere  essenziali ed urgenti sono i rapporti con le figure su cui ci siamo soffermati sopra.

Quello che è certo, cercando di riassumere, è che la questione archivistica è un test a risposta multipla dove, accanto alla soluzione davvero esatta, possono essercene altre, ragionevolmente vicine ad un risultato utile. Per rispondere a questo test occorre mettere in campo capacità di cooperazione fin qui molto spesso rimaste sulla carta. Prima di tutto ci sarebbe bisogno di accordare le fantasiose e diverse anime della comunità archivistica, dai direttori generali degli archivi che si succedono con grande fluidità fino al volontario appena laureato, gli uni spesso poco incisivi l’altro ancora più spesso sfruttato nelle spire perverse del volontariato istituzionalizzato. Inevitabile anche un confronto serrato con le diverse componenti del mondo conservativo, dagli istituti statali centrali e periferici alle diverse e variopinte realtà conservative sul territorio. Poi, ma non meno importante, viene la capacità di stringere alleanze strategiche con quei professionisti e quei settori cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. La possibilità di dare risposte concrete passa innanzitutto per un virtuoso approccio lobbistico e, senza un’azione se non comune almeno funzionalmente condivisa, sarà difficile farsi largo tra i macigni che ostruiscono il cammino.

Una simile comunità di intenti, ammesso e non concesso che la si riesca ad ottenere, ha senso però solamente se è finalizzata all’obiettivo fondamentale, quello di fare breccia nella dilagante distrazione di un’opinione pubblica archivisticamente ignara e non per sua aberrazione specifica.  Questo è il passaggio più delicato e, per certi versi più intrigante, il discrimine tra il protrarsi di geremiadi recriminatorie e il manifestarsi di una necessaria concretezza. Non si tratta, è bene precisarlo, di una crociata a difesa di generici valori archivistici. Anzi, in un approccio di questo tipo, la dimensione archivistica in senso stretto non ha una rilevanza preponderante. Ciò che conta è piuttosto impostare l’equazione archivi uguale cittadini e ribadire che la cultura della gestione documentale non ci interessa solo nella sua dimensione scientifica e/o disciplinare ma anche nell’affermazione del suo insostituibile ruolo civico e pubblico. Tentare di aprire questo varco richiede umiltà, immaginazione e capacità comunicative che vanno ben oltre un generico story telling archivistico. Si dovrebbe forse muovere in direzione della messa a punto di paradigmi comunicativi realmente “pubblici” e capaci di penetrazione nell’immaginario collettivo, affiancando ai canali informativi usuali, tutti a diverso titolo decisamente introflessi, spazi più ampi, magari di minor tono culturale ma capaci di arrivare più agevolmente al bersaglio. Il tentativo serio, e di nuovo concertato, di far leva su spazi pubblicitari opportunamente costruiti o di trovare margini di manovra nella stampa non specializzata, e fuori dalle pagine culturali, potrebbe ad esempio essere un’ipotesi di lavoro.

Ma la comunicazione non basta ed è forse più l’effetto che la causa di un processo di trasformazione necessario. Credo che al riguardo sia necessaria innanzitutto la consapevolezza che per uscire dalle secche in cui stiamo navigando non bastano aggiustamenti. Ritocchi pure indispensabili agli organici, tentativi più o meno maldestri di mirabolanti conversioni digitali o continue elucubrazioni volte al massimo a conservare un disastroso status quo, in un’inesausta partita a scacchi tra non vedenti, sono poco o per niente utili. Ci vogliono invece misure strutturali coraggiose -e perfino visionarie- che in questa fase dovrebbero venire prima delle specifiche esigenze di ognuna delle parti che costituiscono una comunità trasversale e composita. Ora più che mai la parola d’ordine è ecumenismo. Non servono contrapposizioni metodologiche o addirittura ideologiche sulle quali si può continuare a discutere nei confini del dibattito scientifico. Serve invece una convinta comunità di intenti, sia pure nel rispetto e nell’assolvimento dei reciproci ruoli. Bisognerebbe mettersi in condizione di sconfessare un’azione politica ignorante e ignara, inconsistente e vacua nelle sue proposte, nel tentativo di intercettare interlocutori credibili, se esistono. Per quanto possa sembrare impossibile e per alcuni quasi spaventoso, si devono rompere le catene che ci inchiodano a un ministero che per prova provata non è in grado di recepire determinate istanze, dedito alle sue pratiche circonvolute e museum oriented. Certo, nell’immediato, anche in considerazione di una situazione complessiva davvero drammatica, si può tentare di continuare a muoversi dentro all’esistente per evitare il collasso totale e irreversibile del sistema. Però o cambia radicalmente il MIBACT, e sembra oggettivamente difficile, o quello non è il posto per gli archivi. Porsi dei limiti pregiudiziali e rinunciare perfino all’idea di poter uscire da quel tipo di sistema e dalle sue logiche (?) squisitamente ed inevitabilmente beneculturaliste può rivelarsi un grave errore, una contraddizione in termini rivolta contro noi stessi. Iniziare invece a ragionare per il medio periodo, ipotizzando la costruzione di un’agenzia per gli archivi capace di governare realmente la polifunzionalità nell’interesse comune potrebbe darci ossigeno, farci almeno sperare che cambiare sia possibile. Se però liquidiamo l’idea bollandola come ingenua utopia o marchingegno politico e istituzionale che non potrà mai attivarsi, giunti a questo punto credo che sarà inevitabile abdicare e rinunciare a un ruolo dentro alla società. In questa disastrosa continuità è scritta la resa senza condizioni degli archivi fatti di diritti e di doveri.

Gli archivi però non meritano questo e hanno falcate ben più ampie di quelle che riescono ad immaginare burocrati distratti da ben altro.

Neppure m sembra sia utile la strenua difesa di confini di dominio o di ruoli cristallizzati. Anzi, ognuno di noi (e mi metto ovviamente per primo) dovrebbe forse meditare sull’opportunità di fare un passo indietro rispetto alle proprie posizioni consolidate e quantificarlo in termini di capacità di ascolto di altre legittime istanze. Mi sembra infatti che quella che dobbiamo difendere non sia la purezza della razza ma il suo auspicabile cosmopolitismo, dentro logiche di dialogo serrato e complesso, perché la soluzione, se esiste, non è dietro l’angolo e non è precotta. Cercarla ci coinvolge tutti e ci impone di confrontarci a viso aperto.

Dall’alto non calerà neanche uno straccio di meccanica divinità. La questione archivistica dovrà essere messa a fuoco dagli archivisti e le soluzioni dovranno venire dalla nostra comunità e da lì potranno aprirsi verso l’esterno, reclamando un legittimo diritto di cittadinanza nell’agenda politica.

In tutto ciò, spostandomi sul terreno che più frequento e che mi compete da un punto di vista istituzionale, cosa può fare l’università? E in che modo AIDUSA, l’associazione dei docenti universitari, può portare un contributo ai temi di cui stiamo parlando?

Al riguardo credo che innanzitutto l’università, anche in tempi nei quali si tende ad isolarla dalla società civile, obbligandola a recitare ruoli da comprimaria, asfissiata com’è da un’iperfetazione burocratica, debba essere filologicamente fedele a sé stessa e aprirsi all’intera comunità, facendosi lievito di condivisione e collaborando fattivamente con tutti gli altri attori in commedia che abbiamo più volte evocato. L’Università, insomma può essere intanto una cassa di risonanza, un attore proattivo nel diffondere e discutere valori, problemi e soluzioni. Tutto questo nella logica che abbiamo definito ecumenica, scevra da ogni volontà di primato di questo su quello o viceversa, in un contesto dove cercare le gerarchie allontana dalla soluzione.

Detto questo non c’è bisogno di inventarsi nulla, basta dare senso archivistico alla mission accademica, oggi notoriamente incardinata su didattica, ricerca e terza missione

Intanto dobbiamo assolvere quindi a uno dei nostri ruoli essenziali: la formazione, per quanto partecipata e integrata con altri soggetti, prime tra tutte le scuole d’archivio. Se ci guardiamo intorno non è difficile accorgersi che ci serve una formazione solida, rigorosa e aggiungerei rispettosa, ma anche modellata sull’insieme dei bisogni che caratterizzano un mercato del lavoro di nicchia e per certi ancora versi immaturo. Per diffondere la consapevolezza del ruolo sociale degli archivisti e per fornire strumenti per la “costruzione” di archivi attivi e pubblici servono infatti professionisti con i piedi ben piantati nella tradizione e nella conoscenza delle regole e nei principi della disciplina, ma anche aperti mentalmente all’esercizio di compiti nuovi. La formazione, spinoso tema di lunga durata, deve essere al centro di ogni progetto, nella consapevolezza che solo dei professionisti prima di tutto consapevoli del ruolo e poi inevitabilmente seri e preparati, che si chiamano archivisti e niente di più, possano trovare davvero il bandolo della matassa. A patto che li si metta in condizione di operare. Mi sembra perciò importante rivendicare ad ogni livello, facendone assioma preliminare, la centralità di questo profilo professionale ancora incredibilmente vessato e penalizzato da luoghi comuni resistenti ad ogni sollecitazione. Magari facendosi anche qualche domanda su come ci veicoliamo verso l’esterno – non necessariamente ostile – e combattendo noi per primi l’animaletto innocuo e benefico di crociana memoria che ogni tanto torna a far capolino. Gli archivisti non sono innocui, tutt’altro. Quando esercitano in pieno il proprio ruolo possono fare molto male. E non sono neppure esattamente benefici perché nella logica in cui ci muoviamo la parola giusta è indispensabili. Un po’come gli ingegneri per i ponti o gli architetti per gli edifici, in pratica, a meno che non si preferisca un diffuso bricolage infrastrutturale.

Le urgenti ricadute formative che è legittimo attendersi per cavalcare la transizione infinita presuppongono nuovi percorsi, nuove logiche e nuove mentalità. L’archivistica resta centrale ma la dobbiamo sapere declinare anche come organizzazione dell’informazione, cioè come disciplina che intende dire la sua anche nei processi di kowledge management, virando decisamente verso lo studio di sistemi documentali contemporanei. Ci servono archival manager, nel cui profilo non manchino riferimenti ai valori e alle tecniche di lungo periodo. Sembra opportuno insomma passare dalla definizione object oriented di record manager a quella, consapevole della complessità relazionale e polimorfa del sistema archivio, di archival manager. Non si tratta solo di un riposizionamento semantico. E’ piuttosto il tentativo di imparare a governare la profondità delocalizzata, diacronica e complessa di fenomeni documentari altrimenti sfuggenti, agendo sulla contemporaneità digitale, spesso incline a gestire i documenti come oggetti autosufficienti e dotati di vita propria. Rari corsi universitari ed alcuni master sono i primi segnali di inversione di tendenza da cui ripartire per un rinnovamento anche e soprattutto della mentalità di chi studia, in modo da iniziare a preparare figure competenti ma anche consapevoli e sufficientemente agguerrite. In certi momenti, infatti, una certa aggressività rivendicativa, se ben orientata e scevra da velleitarismi sterili, non guasta.

Un altro fronte di vitale importanza per l’università è poi naturalmente quello della ricerca scientifica che ha ricadute specifiche in termini di conoscenza ma, a cascata, impatta anche sulla qualità di quel percorso formativo di cui parlavamo sopra. La ricerca archivistica “pura”, ammesso e non concesso che si possa usare questo termine, ci pone di nuovo davanti a un bivio e la scelta della strada che si intende percorrere non è priva di conseguenze. O, forse, la scelta non c’è, se la ricerca è, da dizionario, “ogni attività di studio che abbia come fine l’acquisizione di nuove conoscenze”. Senza bisogno di rinnegare il passato e nella consapevolezza che c’è ancora molto da dire e da capire in merito a quello che è già stato e che spesso si annida ancora inespresso nei grandi o nei piccoli depositi archivistici, anche nel nostro settore queste conoscenze nuove stano davanti a noi. La consapevolezza metodologica consolidata ci serve a perfezionare la conoscenza del passato, anche di quello strettamente documentario, ma batte piste che non sono nuove. Vanno seguite con fatica, merito e attenzione ma non ci mancano i metodi e gli strumenti per farlo. Un inventario è indubbiamente il prodotto di una ricerca, ma di una ricerca “applicata”, non pura. Non mette in discussione statuti epistemologici e metodologici e non entra nel merito dell’innovazione, per quanto il metodo stesso possa sperimentare aggiustamenti e le tecniche e gli strumenti della descrizione possano evolversi e ampliare i loro obiettivi. Sembra allora opportuno tentare di disambiguare l’espressione “ricerca archivistica”, separando la ricerca in e con l’archivio dalla ricerca sugli archivi. Lavorare sugli archivi può significare infatti applicare quel metodo induttivo che più di ogni altro si addice all’archivistica, in cerca delle conseguenze  -epistemologiche prima e applicative poi – che l’evoluzione della società e dei suoi strumenti ha sugli archivi e, quindi, sulla disciplina che li mette al centro dei propri interessi di studio.

Il terreno di questo tipo di ricerca archivistica può essere un presente già fortemente informato dell’ineluttabilità di ciò che avverrà. Ad essere ottimisti ci aspettano davvero “automobili ebbbre di spazio”, un futuro sbilanciato verso un saggio futurismo, se è lecito l’ossimoro. La nostra innata dimestichezza col tempo e con i suoi svolazzi diacronici può concederci il privilegio di immaginare la società futura, a partire dai nostri metodi e dalla capacità di leggere controluce quella che genericamente definiamo evoluzione tecnologica.

Le macchine pensanti e i loro servigi possono aiutarci in molti modi, alleviando il peso di operazioni da sempre condizionate nella loro reale efficacia da una schiacciante dimensione quantitativa. Basta solo accennare alle ipotesi di classificazione automatica o semiautomatica dei documenti e quindi ad un governo tecnologico delle modalità di sedimentazione degli archivi dentro a scenari liquidi e delocalizzati dove l’efficacia del titolario può perdere qualche colpo. Il titolario deve restare, ovviamente, ma, potremmo dire, con una funzione didattica: insegnare alle macchine a classificare, farle ragionare secondo logiche tassonomiche e funzionali indispensabili ma difficili ormai da gestire “a mano”. Alle macchine, se le educhiamo a dovere, possiamo lasciare il lavoro sporco. Se la mettiamo così il digitale, con buona pace di affrettati millenarismi, non ci sostituirà perché non è la risposta ma, in qualche modo, la domanda. Non la soluzione ma lo strumento verso le soluzioni. Learning machine, algoritmi capaci di imparare da sé stessi dentro a reti informative in apparenza sempre più autonome si avviano ad essere la normalità. Gli altri mondi di Asimov da cui siamo partiti. Ma è anche vero che il compito della ricerca scientifica è quello di creare quegli anticorpi di solida (umana?) realtà che servono a bilanciare il tutto. Il senso profondo della ricerca allora dovrà andare in direzione del dialogo ineludibile con questa nuova tipologia di interlocutori, spingersi nelle pieghe degli algoritmi e imparare a piegarli ad esigenze tutt’altro che robotiche perché profondamente umane.

Questo è vero anche se ci spostiamo nella dimensione apparentemente retroflessa degli archivi già formati, quelli che definiamo storici, anch’essi oggetto di robuste rivisitazioni digitali.

La digitalizzazione meccanica del patrimonio culturale, intesa come semplice riproduzione e ricollocazione di oggetti, come abbiamo visto, è però ormai un’attività di routine, utile ma non certo sufficiente a gestire al meglio le risorse nel loro ibrido insieme. Queste attività non hanno più nulla di innovativo, sono prassi consolidate che non consentono più enfatici approcci comunicativi, scesi dall’alto a miracol mostrare, direbbe il padre Dante. Vanno governate con l’attenzione dovuta e con il giusto rigore selettivo perché, a ben guardare, anche in queste retrovie digitali resta molto lavoro da fare e molti sono gli esperimenti da tentare. Ma quel terreno è più stabile di quello, davvero di frontiera, dove si agitano gli spiriti dell’intelligenza artificiale. Spiriti peraltro non necessariamente ostili, almeno a giudicare da alcuni progetti che già ci dimostrano quali possano essere le future destinazioni d’uso di queste tecnologie. L’approccio descrittivo, appoggiato su percezioni rigorosamente strutturali all’interno le quali gli archivi sono avviluppati in una logica di  relazioni figlie di processi di cause ed effetto, si affaccia alla multidimensionalità, ad un allargamento in senso intercontestuale degli archivi stessi. Seguire questo percorso ci insegnerà probabilmente cose che ad occhio nudo non riuscivamo a vedere, e sprigionerà energie nuove ma non meno reali di quelle cui abbiamo attinto fino ad oggi nel “raccontare” gli archivi.

Ma, avviandoci a concludere, torniamo al ruolo dell’Università e a quella terza missione che insieme a didattica e ricerca ne orienta le attività. Sembra utile tentare di calare gli assunti teorici e le speculazioni futuribili nella concretezza dei bisogni archivistici, magari curando in maniera particolare la dimensione di una comunicazione che – come abbiamo ricordato – sia capace di andare oltre alla sua vocazione scientifica, pure indispensabile. Sarebbe bello che, senza con questo tradire niente e nessuno – riuscissimo a trasmettere all’opinione pubblica un’informazione diffusa in merito all’utilità polifunzionale degli archivi. Anche a questo livello gli archivisti possono sicuramente stupire se stessi e il mondo che li circonda perché una dote precipua dell’archivista è proprio l’immaginazione, la capacità di dare spessore fisico alle parole, di tradurre in fatti e azioni testimonianze altrimenti statiche e mute quando si trovino nello stato di quiete.

La spallata più importante a un castello di carte decisamente già traballante potrebbe arrivare – e in tempi brevi – proprio da qui, nel momento in cui si riuscisse a rompere il circolo, stavolta vizioso, di una comunicazione sempre tristemente uguale a sé stessa. L’università può essere la casa di questo confronto linguistico orientato alla messa a punto di un marketing virtuoso che sia a sostegno di un diffuso consumismo civico e sociale l’unico che potrebbe portarci fuori da secche davvero insidiose.

Per tentare di raggiungere questi obiettivi, indipendentemente dal ruolo dei singoli e dei gruppi, quella che sembra servirci è insomma un’archivistica attiva, partecipata, condivisa. Un’archivistica  politica che sappia sollevare dubbi e contribuire a ipotizzare risposte a bisogni reali e quotidiani, in cerca di quel civismo diffuso di cui tanto si avverte la necessità.

La navigazione assistita verso i nuovi vecchi mondi può partire. Ma il timer segna già un inquietante count down, bisogna affrettarsi.

FEDERICO VALACCHI

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