L’archivistica del nulla

Federico Valacchi*

Abstract

«Perché esiste qualcosa anziché il nulla?  Questa antica domanda, ripresa molte volte nel corso della storia da tanti filosofi e pensatori, ci impone di meditare su quella che sembra essere in assoluto la più profonda di tutte le questioni, la distinzione tra essere e non – essere, tra ciò che esiste e il nulla, il punto da cui tutto il resto deriva»[1]

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus[2]

1. Introduzione

Gli archivi sono diversi.

Se dovessi trovare una parola che li qualifica puntualmente e quindi li posiziona fuori dalla famiglia un po’ sconclusionata e asfissiante dei beni culturali, all’interno della quale il senso comune (e non solo) tende normalmente a collocarli, userei differenza[3]. Ciò per molti motivi, che non credo ci sia bisogno di richiamare qui, se non per ricordare soltanto un concetto cardine, quello secondo il quale gli archivi sono in prima battuta espressione di un bisogno giuridico e fattuale. Solo il tempo li trasforma in una peculiare tipologia di beni culturali, peraltro non priva di trasversale atipicità. Gli archivi sono indubbiamente parenti dei beni culturali ma non sembra opportuno né salutare che essi, considerati da molti come figli di un dio minore, vivano sotto allo stesso tetto degli altri ingombranti membri di quella famiglia.

Accettare la diversità mi sembra significhi calare il concetto di trasversalità archivistica entro sistemi interpretativi e finalità d’uso capaci di andare oltre la specificità di dominio, per cogliere altre occasioni, altre ipotesi e anche altre suggestioni. La molteplicità descrittiva e rappresentativa che connota i fondi archivistici, e su cui ci soffermeremo nelle prossime pagine, assume un sapore particolare quando sia scientemente orientata a collaborare alla creazione e alla manutenzione di sistemi interculturali efficienti.

Fermo restando l’ineludibile assunto di base dell’esigenza di un chiaro riconoscimento dell’autonomia metodologica, istituzionale e funzionale degli archivi, la categoria quasi mitologica di interdisciplinarità, cui spesso si attinge in maniera generica e vaga, in questo tipo di approccio può riempirsi di significati concreti.  

Si tratta, mi sembra, di individuare e selezionare interlocutori attendibili, e, nello specifico, di sceglierne alcuni come privilegiati. Per lunga consuetudine, agli archivi si mischiano saperi di natura giuridica, diplomatistica, paleografica, biblioteconomica e storica. A tempi relativamente recenti, ma ormai sicuramente maturi, risale poi l’indissolubile legame con le ICT e con le discipline dell’organizzazione, con conseguenze inevitabili, e in buona parte ancora irrisolte, sul piano del polimorfismo archivistico e, pertanto, sulle prassi e sulla formazione professionale[4].

Se tentiamo di allargare questo spettro, non si farà però troppa fatica ad associare agli archivi anche conoscenze psicologiche, filosofiche, antropologiche, sociologiche, chimiche e fisiche. Senza peraltro dimenticare il contributo della letteratura che riesce talvolta a interpretare gli archivi e a raccontarli meglio di qualsiasi tentativo scientifico[5].

Ognuna di queste scienze può portare il suo contributo a una definizione rinnovata del significato della funzione archivistica nella sua pienezza. In alcuni casi, poi, tali saperi sanno rendersi utili anche a riposizionare almeno parzialmente la nostra disciplina sulla mappa dei saperi, magari cogliendo sfumature che l’occhio archivistico da solo non riesce a catturare.

Tra le molte piste teoricamente divergenti dallo specifico focus disciplinare in questa sede tenteremo allora di battere, con tutte le cautele del caso, quella sicuramente impervia ma intrigante della fisica. O, meglio, approfitteremo delle suggestioni che quella disciplina evoca in linea generale per leggere gli archivi in una dimensione altra e complementare rispetto a quella, pur vera, irrinunciabile e ancora affidabile, che continuiamo a professare.

Le riflessioni che tenteremo di sviluppare, sembra opportuno precisarlo, non insistono solo e soltanto sui consueti contenuti e/o contesti evenemenziali dei complessi documentari, che pure conservano tutto il loro spessore. Cercheremo piuttosto di guardare dentro alle ulteriori risorse energetiche che dagli archivi si possono sprigionare, per capire come riuscire a identificarle e a registrarle al fine di usarle poi compiutamente in termini di rappresentazione e fruizione.

La fisica, in fondo, è un alibi narrativo.  Determinate considerazioni sullo spazio, sul tempo e sugli eventi sembrano però potersi riferire utilmente anche ad alcune questioni archivistiche.

Ma in generale da un punto di vista metodologico toccare con mano quanto mutevoli possano essere le teorie che cercano di comprendere come funzioni l’universo ci aiuta a verificare per contrasto se e quanto circoscritti e relativi possano rivelarsi i nostri consolidati approcci esperienziali agli archivi.

Nelle pagine che seguono, lungi da utopie rivoluzionarie, trova quindi posto il bisogno di dar corpo a sensazioni che, come vedremo, muovono in buona parte dalle riflessioni intorno allo standard RIC[6] e alle opportunità descrittive, rappresentative e comunicative che un’inesausta rincorsa tecnologica ci rende disponibili ormai quotidianamente.

2. L’elogio del disordine

Gianrico Carofiglio, commentando e quasi recensendo in forma molto sintetica il libro di Eric Abrahamson e David Freedman La forza del disordine[7], testo peraltro non privo di risvolti archivistici, a partire dal titolo, ha scritto qualche anno fa: «Ci sono molte cose che fanno riflettere in questo libro. Il succo […] è che spesso ordine, organizzazione e tendenza alla pianificazione producono più danni che benefici; e che individui, istituzioni e sistemi moderatamente disorganizzati si rivelano più dinamici, elastici e creativi di quelli troppo organizzati. Per la maggioranza di noi – scrivono gli autori – l’ordine è divenuto un fine piuttosto che un mezzo»[8].

Soprattutto l’ultimo passaggio del breve testo di Carofiglio mi sembra ben si attagli a un diffuso approccio archivistico ai concetti di ordine e ordinamento. In alcuni casi il riordinare sembra risolversi nella risposta a una sorta di incontrollata ansia tassonomica e nel tentativo di conseguire un obiettivo concluso in se stesso, il cui raggiungimento strumentale rischia di far perdere di vista le ragioni fondanti dell’intero processo che sono e restano soprattutto quelle di mediazione e di comunicazione nel lungo periodo. Queste motivazioni profonde vanno oltre la cristallizzazione inventariale, in direzione di una fruibilità diffusa e diversificata dei contenuti nel tempo, dentro a un processo in costante divenire dove, in ultima analisi, prende corpo l’esigenza di una descrizione della descrizione. Diventa importante, a un certo punto, valutare anche gli elementi contestuali della rappresentazione e non solo i suoi esiti. Quis custodiet ipsos custodes? Ovvero quanto pesa l’approccio individuale, inevitabilmente soggettivo, sugli esiti di un processo che in nessun momento può dirsi concluso? E in che misura potrebbe rivelarsi utile tracciare le diverse fasi e motivazioni di questo meccanismo inesausto e l’evolversi dei suoi modelli di riferimento?

Alla luce di queste domande la descrizione archivistica e la sua complessa elaborazione tendono a manifestarsi come processi in costante ridefinizione[9], alimentati da suggestioni che inevitabilmente possono a sfuggire al curatore dell’inventario, che resta un umano con tutti i suoi limiti, per quanto padroneggi i ferri del mestiere e dispieghi sul campo tutta la sua preveggente sensibilità.

Non sempre, naturalmente, il flusso comunicativo si esaurisce all’atto della produzione degli strumenti e resta chiaro, almeno da un punto di vista teorico, che non ci sono dubbi sul fatto che il fine del processo di descrizione e ordinamento sia quello di garantire, tramite la successiva inventariazione, il massimo livello di comprensione e consultabilità agli archivi storici per un tempo indeterminato[10]. Ammettiamo perciò che sia lecito e consigliabile parlare astrattamente di un solo ordine archivistico. La ricostruzione di tale ordine, quando diventi mero esercizio stilistico, governato da un’applicazione senz’anima del metodo, e magari supportata da un uso eccessivamente fiducioso del software, rischia però di perdere il suo ruolo di scintilla. Non riesce a farsi innesco di eventuali altre soluzioni, a incoraggiare esplorazioni dell’archivio e dei suoi contenuti che conducano la ricerca verso risultati imprevedibili al momento della partenza. L’inventario diviene così un traguardo e non un punto di partenza, come sarebbe lecito aspettarsi.

C’è da dire anche che il bisogno di ordine o, meglio di gestione ordinata, si manifesta in ogni fase del ciclo vitale e accompagna, o dovrebbe accompagnare, l’armonico dispiegarsi dei benefici effetti che derivano ai sistemi archivistici dalla corretta applicazione della funzione archivistica. L’archivio, vale la pena di dirlo ancora, per quanto possa esistere anche nel disordine cui quasi ineluttabilmente tende, è in sé definito dall’ordine. Qualunque ne sia la finalità in un dato momento della sua vita, l’insieme dei documenti intrinsecamente vincolati[11] rimane «il luogo dove l’ordine è dato»[12]. E l’ordine, prima ancora che routinaria esigenza catalografica, è un fattore politico. E’ un obbligo che deriva dall’esigenza di un complessivo governo delle cose che in maniera sbrigativa chiamiamo spesso memoria. E’ appena il caso di notare, al riguardo, che la memoria intrinseca degli archivi rimanda a quella dell’acqua, capace di rammentare gli elementi con cui l’attore del ricordo entra in contatto. Non solo le persone, i fatti o le cose nutrono questo processo mnemonico multiforme. Esso è azionato anche dai reiterati tentativi tecnici di ridurlo a sistema. La memoria si trasforma da statica raffigurazione del passato in una materia viva, risultando spesso sfuggente e sempre capace di reinventarsi e di imporre nuovi sistemi di controllo alla sua straripante vitalità.

 In principio era il caos e poi dalla mente divina scaturirono gli archivisti, ineffabili e prometeici padroni del disordine¼

Ma torniamo a quella sorta di elogio della disorganizzazione evocato da Carofiglio, concetto che mi sembra abbia anch’esso qualcosa da dire all’archivistica e, soprattutto, all’archivistica contemporanea. La disorganizzazione, a ben guardare, non è banale disordine. Sembra piuttosto la conseguenza del fatto che, dentro a qualsiasi tipo di universo sappiamo immaginarcele, le cose difficilmente marciano in asettica parata, siano esse oggetti, o pensieri, o archivi interi. Gli elementi fisici tendono piuttosto a collidere, a sovrapporsi e ad alimentare sempre nuove catene di istanze e di avvenimenti, per confluire infine dentro a una gamma assai ampia di ipotetiche invenzioni tassonomiche che tenta a posteriori di irreggimentarle, in maniera spesso velleitaria.

L’ordine archivistico, allora, se lo guardiamo così, è qualcosa di più di un’inevitabile e monocratica cristallizzazione sancita da un metodo rigoroso ma alla fine si rivela algido, almeno in alcune sue applicazioni. Ciò che il nostro volenteroso lavorio descrittivo e organizzativo contribuisce a portare allo stato solido dell’inventariazione in momenti successivi può nuovamente sciogliersi o evaporare, assumendo caratteristiche di volta in volta diverse da quelle conferitegli al momento della chiusura dell’ordinamento.

L’ordine che riusciamo faticosamente a generare attraverso la complessa analisi costitutiva delle diverse entità in gioco e la sua restituzione sotto forma di inventario possono perciò essere letti, non tanto come assiomi descrittivi, quanto come finestre aperte su universi potenziali e in buona parte inespressi. Forse, ancora meglio, lo si può considerare come un eventuale stato di quiete, faticosamente conquistato e poi soggettivamente fissato dentro a un sistema di relazioni collocate in un dato punto nel tempo e dello spazio[13].  L’ordine che scaturisce dal metodo, in altre parole, può essere pensato – e qui sta la sua peculiarità nascosta – come la carica conferita a un meccanismo a molla pronto a scattare.

L’ordine archivistico duro e puro, figlio del metodo, fa di un fondo un’entità stabile. Esso però non può escludere una dinamica aspettativa di tutte quelle sollecitazioni che inevitabilmente creeranno nuovi ipotetici assetti[14], nuovi modelli di organizzazione delle informazioni e nuovi stili di rappresentazione, spesso trasversali o complementari al fondo stesso. E altrettanto inevitabilmente da questi ordini scaturiranno tipologie cangianti di consultazione, capaci di tendere all’infinito, in quanto espressione delle molteplici curiosità che le alchimie documentarie, e le fantasiose miscele che esse instancabilmente distillano, sanno evocare.

Ammettere questa eventualità suggerisce anche di modificare i comportamenti descrittivi, adeguandoli a una realtà che tende a manifestarsi sotto forme più complesse di quelle cui da lungo tempo tentiamo di ricondurla.

Passare da un approccio rigidamente ISAD like, cioè gerarchico e multilivellare, a una rappresentazione orientata ai canoni di RIC, e quindi ontologica e distribuita su diverse dimensioni, significa scavalcare i recinti dell’ordine canonico e dei suoi reticolati informativi. In altre parole per inseguire le realtà ci è lecito approfittare delle benefiche conseguenze di una contaminazione radiale, capace di allargare e ridefinire plasticamente gli impulsi informativi che si sprigionano dai documenti.

L’ordine e la struttura restano, ma non sono un’espressione definitiva, quanto piuttosto la stazione di partenza verso nuove esplorazioni descrittive e comunicative capaci di moltiplicare le immaginifiche sensibilità sottese al bisogno di ricerca. Ogni singolo approccio all’archivio è infatti solo uno dei molti punti di vista ipotizzabili[15] e si nutre di differenziati impulsi individuali e multidisciplinari oltre che di istanze tecniche o scientifiche puntuali.

Bisogna tener conto insomma di una sorta di costruttivismo archivistico intendendo il fenomeno come il fatto che «ciascun individuo crea la propria realtà rielaborando ciò che viene recepito dall’esterno attraverso modelli mentali che non sono innati, ma che si producono e si trasformano in base alle passate esperienze»[16]

Se questo è vero si può probabilmente concordare sul fatto che la forza del disordine dinamico – a prima vista clamoroso ossimoro archivistico – risiede nella capacità, ma direi piuttosto nel bisogno, di arrivare a una lettura dei fenomeni documentari orientata alla consapevolezza dell’esistenza di una costante tensione cinetica. Si manifesta quindi il bisogno di affinare la capacità di ripensare assetti strutturali teoricamente puntuali (puntuti?) ma da non ritenere definitivi lungo l’asse del tempo e dello spazio.

Assecondando questo bisogno si potrebbe ammettere che il processo di ordinamento non debba perciò necessariamente tendere ad un inespugnabile finalismo ma, anzi, riesca ad attingere alla eventualità di aprirsi alle influenze dei tanti contesti che ciclicamente o, meglio, trasversalmente, lo ridefiniscono nello spazio, nel tempo e nelle sue presunte e/o perseguibili finalità.

3. Dalla potenza all’atto

L’archivio – pur con le diverse sfumature che connotano il suo ordine o il suo disordine di base – in fase di quiete può essere pensato come un nulla informativo, ed ecco la ragione principale del titolo di questo contributo. Sono gli eventi che gli si manifestano dentro e intorno a trasfigurarlo e a farne quella materia viva e pirotecnica che non manca mai di creare nuove fascinazioni.

In una logica conforme a RIC e non estranea a suggestioni postmoderne, pertanto, assume un significato concreto valutare il contributo che alla causa archivistica può portare il progressivo avvicinamento alle tecniche e agli strumenti del web semantico[17]. La capacità che queste risorse tecnologiche hanno di restituire (e talvolta anche pensare…) rappresentazioni radiali di realtà sempre più intrecciate tra loro può risultare funzionale alla causa archivistica del terzo millennio. Può, ad esempio, aiutare a sciogliere nodi di lunga durata e a proiettarsi oltre i limiti congeniti degli abituali processi di mediazione e di costruzione della mediazione stessa.

Si pensi ad esempio alle difficoltà che si incontrano quando si vogliano mettere in comunicazione i dati archivistici con gli oggetti che essi al tempo stesso certificano e rappresentano. Ovvero al bisogno concreto di integrazione non solo descrittiva tra diversi oggetti informativi che può manifestarsi ad esempio nei cosiddetti archivi di prodotto dove “la cosa fisica”, apparentemente bene museale, è in sostanza una lettura a voce alta delle informazioni registrate sulla “cosa scritta”. Può essere questo il caso dei fondi della moda dove si manifesta il bisogno di far interagire un disegno con la scarpa che ne è l’applicazione, o di archivi dello sport, dove gli attrezzi, ad esempio una palla,  contribuiscono a connotare la fisionomia del soggetto produttore in misura forse ancora maggiore delle carte scritte. Anche per questi motivi è ormai inevitabile tentare di addomesticare per quanto possibile la tecnologia e usarla per scaraventare il cuore archivistico oltre gli ostacoli descrittivi.

In una fase caratterizzata da una di crisi di crescita, ma anche da indubbi tratti evolutivi, gli strumenti, e gli strumenti tecnologici in particolare, non solo manifestano una potenza di fuoco sempre maggiore ma, in molti casi, aprono ulteriori scenari, suggerendo nuove soluzioni a problemi antichi. Nulla di fantascientifico, peraltro, ma un confronto che sia per quanto possibile laico, concreto e pacato con l’impatto accelerato delle ICT che permea tutta la nostra società e ne indirizza i comportamenti.

Ma cerchiamo di tornare a seguire il filo del nostro ragionamento, chiudendo questa breve digressione di natura tecnica e strumentale, anche se l’uso di tecnologie non è mai meramente strumentale, ma ha sempre ricadute dentro ai domini nei quali viene calato.

Per quello che abbiamo detto gli archivi esistono nel tempo e nello spazio in quanto accadono, cioè in quanto sono sottoposti a sollecitazioni esterne, quali sono in particolare le consolidate e canoniche azioni di natura tecnico scientifica ricomprese nel capiente concetto di conservazione. Questo accadere li determina come oggetti definiti e li libera dal nulla.

Ci insegna la fisica che «le cose che occupano […] posizioni spazio-temporali sono anche dette “eventi”. Un evento è qualcosa che accade in una piccola regione di spazio a un dato istante. Uno schiocco delle vostre dita, ad esempio»[18].

Possiamo allora provare a pensare agli archivi come a eventi ripetuti che si inseguono nel loro costante divenire e reagiscono, quasi fisicamente, a un reiterato, archivistico, schioccare delle dita, In una piccola regione di spazio, visto che le grandi platee non sembrano fare al caso nostro, il tempo archivistico può tornare su se stesso senza scandalo.

Sugli archivi agiscono utenti interni (cioè gli archivisti con la loro missione) e esterni (cioè i “clienti” con i loro molteplici desideri di conoscenza) le cui attenzioni fanno scattare la molla di cui parlavamo sopra, con esiti tendenzialmente imprevedibili.

Difficile dire, ad esempio, dove ci condurrà un riordino. Quando, armati di metodo storico, ci confrontiamo con sedimentazioni che ci proponiamo di domare, sappiamo sicuramente da dove partiamo. Ma, se il nostro è un approccio umile e consapevole, fedele agli insegnamenti di una tradizione ancora ben solida, risulta più difficile sapere dove arriveremo[19]. Allo stesso modo, ed è risaputo, chiunque intraprenda una ricerca archivistica di una qualche complessità deve essere conscio del fatto che batterà sentieri tortuosi e che in corso d’opera la destinazione può cambiare o rivelarsi al viaggiatore secondo modalità a priori inimmaginabili[20].

 In ogni caso, indipendentemente dai propri fini, ogni tipologia di soggetto che entra in contatto con un fondo archivistico esperisce tecniche che possono agire sullo spazio tempo dentro al quale i complessi documentari insistono, cioè sull’universo, sia esso vuoto, o diversamente popolato, entro al quale gli archivi stessi fluttuano. Se li pensiamo immersi in questo immaginifico contenitore i fondi archivistici non sembrano destinati a una splendida e inevitabile solitudine, almeno quando li si valuti dentro a logiche caratterizzate da un forte vocazione all’integrazione informativa. L’unicità tipologica e ontologica di ognuna di queste universitas rerum rimane di sicuro un dato intangibile[21]. Se però ampliamo il raggio visivo, possiamo forse intravedere un universo archivistico polimorfico. A popolare queste terre di carta (e in misura minore di bit) è una molteplicità di strutture in sé definite. Queste porzioni di universo sono a loro volta incastonate in mondi più ampi, fatti di altri infiniti frammenti informativi che contribuiscono, secondo schemi sempre variabili, a definire realtà che a prima vista possono sfuggire. Oltre i confini sacri e inviolabili dell’archivio in senso proprio e dei suoi fratelli fluttuano invece altre peculiarità informative di uguale consistenza e rilievo, siano esse diplomatici, collezioni, banche dati tematiche, archivi inventati, fondi librari ed ogni altra forma di aggregazione. Tutte queste entità possono entrare in contatto tra loro e scontrarsi lungo le traiettorie di segmenti di conoscenza integrati oppure continuare a marciare dentro a un percorso segnato da rette aprioristicamente parallele, sancite da rigide prescrizioni di dominio. La realtà informativa che oggi iniziamo a intravedere, e che in qualche caso già manifesta i suoi effetti sul presente e verso il futuro[22], sembra però suggerirci letture complementari delle diverse fenomenologie documentarie, orientate alla generazione di una conoscenza che tende a essere il risultato di una moltiplicazione e non di una banale somma.

L’archivio che esiste per effetto del succedersi di eventi nello spazio-tempo, mentre perde la sua rigida univocità interagendo con una molteplicità di suoi simili e si apre ad altri domini e contesti informativi, si trasforma in una sorta di trottola contestualizzata, fedele alle sue radici ma capace di impensabili trasformismi e di mirabolanti alleanze.

Esiste quindi l’evenienza, magari velleitaria e visionaria, di collocare il fatto archivistico dentro realtà moltiplicate e allargate, nel quadro di proiezioni che evocano suggestioni di infinito.

L’ipotesi è quella di capire se e come si riesca ad andare oltre determinati vincoli di metodo e di prassi consuetudinaria che possono rallentare una generalizzata utilizzazione degli archivi. Bisognerebbe allora mettere le nuove e contaminate percezioni degli oggetti scritti in condizione di portare un contributo alla causa di una pervasiva e refrigerante nebulizzazione archivistica dell’intera società.

Se ragioniamo a partire da qui, i nostri tentativi di riflettere ancora sul metodo e sui suoi eventuali sviluppi trovano una volta ancora un formidabile alleato nella tecnologia. E’ chiaro da tempo, e lo abbiamo già detto, che ormai con le ICT i conti si devono fare eccome. Si tratta di capire però come possiamo usare proficuamente le occasioni che ci si offrono, proprio in direzione di un allargamento dei confini, in alcuni casi pregiudiziali, che imbrigliano la disciplina, i suoi adepti e le sue grandi potenzialità.

Per sviluppare le nostre considerazioni siamo partiti, dal fatto che gli archivi, e soprattutto gli archivi digitali, sono realtà trasversali. Trasversali allo spazio e al tempo, in prima battuta. Ma trasversali anche, se non soprattutto, alle società che li generano in qualsiasi punto del tempo e dello spazio. Sembra allora necessario declinare questa trasversalità in termini diversi da un autoreferenzialismo di dominio che risulta ormai in buona parte superato dalla realtà. Queste robuste sedimentazioni di dati danno il meglio di sé quando sfuggono al controllo di chi pretende di incantarli con il flauto della consuetudine. Ma bisogna valutare con attenzione i probabili campi di atterraggio sui quali possono planare i fondi archivistici in fuga da se stessi. Segnare le profonde differenze che distinguono gli archivi dal resto di quel claudicante sistema che viene definito dei beni culturali è il primo ineludibile passo da muovere in questa direzione. Dobbiamo fare una scelta, magari sotto alcuni punti di vista dolorosa. Sembra necessario, arrivati a questo punto, che gli archivi escano infatti dalle secche insidiose del patrimonio culturale inteso nella sua inconcludente generalità, evitando magari di insistere troppo su estetizzanti professioni di fede sui beni culturali in quanto espressione di una aprioristica καλοκἀγαθία.

Nel nostro paese gli assetti e il governo dei beni culturali funzionano poco e male in generale e tanto meno riescono a rispondere con reale efficacia alla peculiare diversità delle carte dai quadri, dai libri, dai film, dai reperti archeologici e così via. L’integrazione, i sistemi informativi complessi e le contaminazioni informative rimangono auspicabili e forse indispensabili, ma gli archivi potranno reggere questo carico solo quando saranno messi in condizione di sprigionare in maniera autonoma tutta l’energia che la collocazione attuale comprime pesantemente.

Se questo non avverrà, e certo allo stato attuale una simile configurazione sembra lontana dal realizzarsi, le molte forme vitali che popolano questi cangianti bestiari di carta resteranno inespresse. E invece di imbarcarsi su avventurose caravelle gli archivisti proseguiranno nel loro cabotaggio sotto costa.

4. Tra senso univoco e rumore bianco

Ma, se davvero vogliamo immaginare per gli archivi un futuro pervasivo, c’è forse bisogno di riflettere ancora sui molti ipotetici modi di concepire gli archivi stessi e sulle altrettante occasioni di definirli dal punto di vista descrittivo. A partire da un singolo fondo si possono infatti disegnare immagini disparate che, invece di sovrapporsi e finire imprigionate senza soluzione di continuità dentro a fenomeni ottici piuttosto prevedibili, si inseguono e si intersecano nello spazio di molteplici universi narrativi, evocati da miscele di tecnica, bisogno e fantasia.

Torniamo perciò ancora alla fisica del nulla da cui siamo partiti. Scrive Weatherall:  «Naturalmente esiste un senso ovvio di cui ci serviamo spesso per parlare dello stesso luogo in istanti diversi. Ad esempio, posso parlare di casa mia, del fruttivendolo all’angolo o dello stato della Virginia in istanti diversi. Se dico di aver vissuto molti anni in questa casa, che vado dal fruttivendolo una volta alla settimana, o che oggi la Virginia è uno stato degli Stati Uniti ma che nel XVIII secolo era una colonia britannica, il senso delle mie parole è univoco»[23].

Anche il termine archivio, come di norma lo qualifichiamo, coincide in prima battuta con un’ovvietà semantica, peraltro caratterizzata da screziate sfumature polisemiche. Se riduciamo la riflessione al singolo fondo archivistico il significato delle parole che normalmente utilizziamo al riguardo è, appunto, convenzionalmente univoco. Perciò le architetture archivistiche e le loro conseguenze, fintanto che non si decida di andare in cerca di modelli diversi o di diverse sollecitazioni, non traballano, conservano anzi una loro credibile solidità[24]. Al tempo stesso, però, queste robuste certezze espressive rischiano di circoscrivere a modelli troppo uniformi, troppo ovvi, le conseguenze informative che si celano tra gli scaffali o dentro alle memorie. La tradizione in fondo serve a questo: a confortarci, a tutelarci e a spingerci verso il futuro tenendo i piedi ben saldi su un indispensabile passato. La tradizione, insomma, non è esattamente ovvia, ma, per sua natura, ripetitiva, nel bene come nel male.

Nel tentativo di andare oltre una strisciante ovvietà, ipotizziamo però, per amore di paradosso e di provocazione, che l’archivio possa essere equiparato a una materia (antimateria?) in sé inerte, che si manifesta nella sua concretezza solo in quanto risponde a determinate provocazioni. In questo modo potremmo ammettere che la tipologia sempre nuova dello stimolo qualifica l’archivio stesso e lo modella in ragione della natura delle sollecitazioni cui è sottoposto.  Ogni complesso esiste, o non esiste, in ragione di una molteplicità di azioni a lui esterne che provengono da quell’universo cui alludevamo sopra. La prassi consolidata, madre dei nostri comportamenti, ha in questi fenomeni senza dubbio un ruolo importante. A generare molte di quelle che definiamo sollecitazioni sono inveterate abitudini disciplinari, a partire dalle quali si diramano però nuove direzioni di marcia e questo può essere il fatto nuovo.

Probabilmente, però, si può andare oltre. L’archivio, dentro a scenari di questo tipo, sembra adattarsi a un concetto secondo il quale il suo complesso e asincrono manifestarsi coincide anche con l’evoluzione di determinati luoghi (intesi anche come insiemi fisici della conservazione) visti in momenti diversi. Gli istanti, pensati come una serie di azioni o reazioni, per esempio un succedersi di momenti conservativi fatti di trasferimenti, accumuli, versamenti, scarti, riordini, digitalizzazione, sanno modificare l’impronta fisica di un fondo e le sue varie destinazioni d’uso.

L’archivio diviene nel tempo e nello spazio e si manifesta come un luogo relativo e non assoluto. E comunque forse assoluto non lo è mai stato.

In assenza di sollecitazioni un fondo, come abbiamo detto, si limita ad esistere nella sua statica fisicità dentro a un vuoto informativo esposto in diversa misura ai rischi che le ingiurie del tempo e le incurie degli umani possono ingenerare. In questo stato di quiete i complessi documentari risultano vulnerabili all’azione di meccaniche di racconto e uso non esplicitamente contemplate nei manuali e in una prassi plurisecolare.

Per queste ragioni in determinati momenti, cioè in quegli istanti di cui parlavamo sopra, l’archivio può essere sollecitato, i fisici direbbero attraversato, da onde gravitazionali di diversa natura ed entità. E la natura della risposta varia appunto in ragione dell’istanza e suggerisce comportamenti descrittivi differenti, capaci di rispondere a bisogni che non sono assoluti, inchiodati cioè a un metodo dato a priori, ma relativi. In ragione di ciò incatenare il concetto stesso di rappresentazione a un modello unico può risultare un limite. Quello di descrizione si avvia ad essere un termine destinato a un numero plurale. Lo stesso plurale che non a caso, come preciseremo meglio, qualifica la natura dell’idea di contesto in RIC, moltiplicandone l’impatto e le conseguenze dentro a impianti descrittivi capaci di una costante palingenesi.

La fisica ci insegna ancora come i concetti di spazio e tempo, di presente, passato e futuro, siano alla fine relativi e non obbediscano necessariamente alle nostre esigenze interpretative contingenti, sfuggendo a modelli e modalità di misurazione dati a priori[25]. Il tempo, dentro a un simile approccio, non è un flusso costante che muove da un presunto e univoco passato per confluire in un effimero presente da cui sfocia in un futuro che non sappiamo ricordare. Esso è in sé la misura del cambiamento e non tanto e non solo lo scenario dentro al quale gli avvenimenti evolvono, scandito da misurazioni in ultima analisi artificiali.

Per i fisici lo spazio tempo è un oggetto, e neppure univoco. Ma se il tempo fisico non è unico e se gli spazi tempo sono entità che agiscono concretamente, se il flusso temporale si avviluppa in un intricato groviglio di relazioni, cosa ne sarà del tempo archivistico, storico, fattuale, da sempre convenzionalmente adagiato su un asse in uniforme e implacabile avanzamento?

Dentro a simili scenari possono indebolirsi le rappresentazioni cronografiche di un archivio[26], le cui non-radici affondano nel tempo degli orologi, delle clessidre e delle meridiane. Queste raffigurazioni possono diventare, cioè, solo uno dei modi secondo i quali si può vedere l’archivio in azione, autorizzandoci a pensare che esistano molteplici, se non infinite, modalità di analizzare e canalizzare lo sprigionarsi dell’energia archivistica. Come se le particelle archivistiche, elettroni, positroni e quark documentari, fossero in costante tensione dinamica, senza che davvero se ne possano mai prevedere la reale collocazione nel tempo e nello spazio e la destinazione d’uso finale.

Tutto ciò sembra consigliarci approcci cauti, guardinghi, ma forse necessari all’ipotesi di ulteriori revisioni dei nostri metodi e delle nostre prassi. Come sappiamo, il fondo archivistico, nello sviluppo della riflessione che da Cencetti porta a Valenti e Pavone, e poi cresce e si dettaglia avvicinandosi alla fine del secolo scorso, a suo tempo si è svincolato dal controllo severo e ineludibile del soggetto produttore. Oggi, si parva licet, dentro ai nuovi bisogni di una società trasformata e ormai pesantemente (dis) orientata anche da inauditi accadimenti digitali, lo stesso fondo deve aggiornare gli schemi che lo vestono di vecchie casacche ormai strette. E’ forse arrivato il momento di adeguare al presente abitudini che lo governano in nome di immutabili coordinate newtoniane che fanno del tempo, sensorium dei, un contenitore di eventi.

Questo tortuoso percorso è segnato indubbiamente dal bisogno di ricorrere a forti astrazioni e disseminato di extravaganti tentazioni., Eppure sembra che si riesca a concepire un archivio che in ultima analisi, come teoricamente può avvenire per ogni oggetto pensabile in un qualsiasi universo, non contiene a priori assolutamente nulla. Esso è costituito da oggetti e relazioni che si palesano solo in presenza di un moto archivistico, cioè di un’ininterrotta catena di azioni e reazioni che muovono dal suo valore informativo assoluto verso etrogenee finalità.

Le parole, che combinandosi generano i documenti dai quali infine scaturiscono gli archivi, rischiano di perdere il loro significato per strada quando non si dispieghino intorno ad esse capacità ermeneutiche in grado di governare l’onda gravitazionale che accende i contenuti e agita la materia archivistica. Il lavorio costante degli archivisti, che permea ogni fase di ogni ciclo vitale, rappresenta bene queste capacità e costituisce l’innesco dei fenomeni che, appunto, attivano l’archivio stesso.

Se questo lavorio non c’è e se, al tempo stesso, non si registrano esigenze di interazione con i contenuti, la pur imponente dimensione quantitativa della memoria sedimentata e incatenata a diversi supporti scivola in una indefinita vaghezza.

Lo spessore fisico delle aggregazioni in attesa di sollecitazioni oscilla in un vuoto che lascia intuire un mare che ribolle di attività, o, meglio ancora, di opportunità. In assenza del palesarsi di particelle figlie di precise sollecitazioni tecniche [27], e che siano capaci di interagire tra loro e con il sistema nel suo insieme, imperversa quello che i fisici chiamano il rumore bianco[28].

Ma, se cerchiamo di ricondurlo all’archivistica, cosa potrebbe essere con affidabile approssimazione il rumore bianco? Cosa rappresentano quelle fluttuazioni, quella risacca informativa almeno in apparenza senza costrutto?

Il rumore bianco che si propaga dagli archivi potrebbe avvicinarsi a quello che noi definiamo genericamente disordine. Non il vuoto assoluto, ma la continua frequenza di una richiesta di ordine o, forse, l’anelito a una quiete tassonomica capace di esorcizzare le lisergiche deviazioni informative che sprizzano da ogni poro delle raccolte organizzate di documenti.

La distanza che intercorre tra un presunto stato di sedimentato ordine originario – che spesso si trasforma in un disordine frutto di eventi perfino avventurosi, quando non figlio di comportamenti archivistici ai confini del dolo – e un presunto ordine finale è il rumore bianco che gli archivi emettono. Il lavoro archivistico sembra tendere a ridimensionare questo suono indistinto e a contrarlo contenendone le fluttuazioni.

Questo tipo di intervento si sviluppa tradizionalmente in maniera retroattiva, cercando di colmare gli spazi vuoti che separano l’ordine originario da quello che alla fine di percorsi virtuosi trova consacrazione nella bacchetta magica della mediazione, l’inventario. Ammesso e non concesso che un inventario basti ad arginare gli eventi che a ondate successive e imprevedibili continuano a infrangersi contro agli archivi, anche contro a quelli apparentemente pacificati dal processo di riordinamento. Un archivio abbandonato, in stato di disordine, è un’entità in cui si specchia e si manifesta il nulla, attraversato da smarrite onde gravitazionali incapaci di incontrare sul loro cammino evidenze di tempo e di spazio. Esso non è tanto materia inerte quanto vuoto, frattura non sanata tra un prima, un durante o un dopo che risulta complesso mettere in fila per effetto di comandi metodologici precostituiti e tutto sommato generici e non sempre efficaci.

Ma lo spazio e il tempo possono continuare a fare il loro gioco anche dentro a complessi ordinati e dotati dei rispettivi inventari. La descrizione nei suoi elementi costitutivi e la conservazione nel suo insieme non sono infatti mai uguali a sé stesse. Esse sono piuttosto ipotesi, interpretazioni curiose che per quanto sanno cercano di cogliere, per mezzo di più o meno potenti telescopi metodologici, segnali che arrivano dalla profondità del tempo e dello spazio archivistico. Su questi fondi, che ai più sembrano godere della pace dei sensi e sorridere mansueti dagli scaffali, si esercitano le pressioni di utenti nuovi e imprevedibili[29]. Sul patrimonio informativo disponibile fanno il loro gioco le infinite modalità di interrogazione, non paghe della specifica narrazione inventariale, che pure al tempo stesso le condiziona e le orienta. Il limite dei nostri inventari, approssimazioni encomiabili ma mai esaustive,  è proprio quello di essere solo dei tentativi, per quanto spesso ragguardevoli, di abbattere il rumore bianco e di dare spessore e contenuti al nulla figlio dello stato di disordine[30].

Se seguiamo questa ipotesi dobbiamo muoverci verso concezioni dello spazio tempo archivistico e delle sue conseguenze che sappiano reagire con maggiore elasticità a sollecitazioni assai diversificate e difficilmente prevedibili aprioristicamente.

La multidimensionalità descrittiva che si sprigiona dai modelli di rappresentazione stellari, ontologici e non solo gerarchici, può essere la risposta a questa esigenza, nella misura in cui modifica lo stato di quiete apparente suggerito e quasi indotto dall’inventario e innesca un meccanismo secondo il quale, a partire da un presunto punto fermo, il racconto dell’archivio si alimenta delle differenziate istanze degli utenti e la sua potenza di fuoco informativo cresce, si moltiplica lungo il tempo delle domande e non si accuccia dentro a risposte codificate da un metodo ormai messo alla prova dal concetto stesso di rappresentazione a dimensione variabile che l’evoluzione tecnologica e rinnovati bisogni culturali ci obbliga a prendere in considerazione.

5. RIC, dal contesto ai contesti[31]

Se scivoliamo verso la multidimensionalità descrittiva, però, è inevitabile tornare a fare riferimento a RIC e alle tante riflessioni che il nuovo standard può suscitare[32]. Intanto, come abbiamo già avuto modo di notare, non è casuale o irrilevante che nella denominazione dello standard la parola contesto sia declinata al plurale[33]. La differenza di numero attribuita al termine accenna non solo alla molteplicità delle entità che concorrono a generare un contesto, ma anche alle loro altrettanto molteplici combinazioni. Così un concetto portante della descrizione si dilata sensibilmente, facendo sì che gli archivi, emancipati dai vincoli esclusivamente strutturali e dai loro ingorghi semantici, possano scendere dagli alberi e distribuirsi su un piano fatto di reti di significati e di plurimi rimandi contestuali. Si profilano all’orizzonte interazioni fin qui faticose[34] e i fondi archivistici si aprono a galassie informative che possono diventare realisticamente integrabili e integrate, con particolare riferimento ai vicini di sempre, biblioteche e musei[35].

Le strutture gerarchiche conservano un loro significato, direi soprattutto organizzativo, ma il loro ruolo, fin qui esclusivo nel pantheon descrittivo che in Italia ha trovato la sua consacrazione nei grandi sistemi informativi archivistici, diventa complementare a visioni allargate del mondo.  La peculiare attitudine descrittiva che promana da RIC è incoraggiata da macchine ormai capaci di sviluppare pensieri e di accumulare competenze, dentro alle spire voluttuose del machine learning[36]. Quella che si profila è una descrizione a colori, capace di cogliere tutte le sfumature dell’iride che sfuggono al bianco nero gerarchico figlio di ISAD(G). Mille sfumature di grafo, insomma

In questa lettura RIC diventa anche uno standard antagonista del nulla archivistico che abbiamo descritto e contribuisce a indirizzare la inesausta dinamicità che agisce anche sugli archivi apparentemente pacificati dall’ordinamento.

Ma c’è ancora qualcosa di diverso dal passato. Come abbiamo già avuto modo di accennare in apertura, questa modellizzazione RIC-style è sostenuta dalle potenzialità di nuovi paradigmi tecnologici, capaci di influenzare in profondità la percezione che abbiamo degli archivi, orientandone la parabola descrittiva. Anzi, è proprio a partire dalla constatazione di quanto sia utile attingere a determinate risorse tecnologiche con la volontà di metterle al servizio degli archivi (e viceversa, ci si potrebbe spingere a dire) che lo standard segna una discontinuità con il passato. Se per ISAD ricorrere alle tecnologie era una eventualità (may serve)[37], secondo il gruppo EGAD «archival description (and resource description in general) is dependent on available communication technologies. As new methods of representing and communicating information become available, they offer the opportunity to re-envision archival description»[38].

Si può in definitiva fare leva su una rinnovata artiglieria tassonomica e narrativa, resa disponibile da una tecnologia che, non senza suscitare qualche legittimo brivido, si avvia a diventare più immaginifica degli umani o, quanto meno, è in grado di processare la realtà a velocità supersonica, fino a renderne indistinti i confini. Per questa ragione è ipotizzabile che, a partire da un singolo fondo, e magari da un pugno di parole, il concetto già avventuroso di docuverso possa ulteriormente allargarsi fino a configurare una sorta di multiverso documentario[39].

Questo sfrangiato e sfuggente dominio è costituito dalle tante modalità secondo le quali un complesso archivistico si manifesta e intercetta entità a lui simili o, almeno, con lui compatibili, incrociando inaudite tribù di abbordabili elementi di contesto pronti alla conversione multidimensionale.

6. Conclusioni

Secondo alcuni, come abbiamo visto, quella del multiverso è una interpretazione della realtà che non formula previsioni su possibili evoluzioni della realtà stessa e non ne limita la manifestazioni ad aspetti particolari[40]. Questo approccio sembra ben adattarsi a una visione degli archivi, e dei sistemi informativi di diversa natura in generale, che sia ampia ed eversiva rispetto a visioni più osservanti dei canoni.

La realtà archivistica dentro a questo modo di immaginarla esce da sé stessa e precipita in un gioco di specchi che ne moltiplica le rifrazioni svelandone anfratti impensabili. Una simile opportunità è alimentata da un gioco di rimandi descrittivi e di incastri informativi che tende all’infinito. Le imprevedibili aspirazioni di un numero misterioso di utenti e le loro sensibilità contribuiscono in maniera determinante a garantire sempre nuovi obiettivi agli esiti informativi attesi.

Per non precipitare tra le braccia di un vuoto assordante bisognerà però saper governare certe suggestioni e le inevitabili accelerazioni tecnologiche che le legittimano e le sostengono. Innanzitutto non si deve perdere di vista la consistenza archivistica, vale a dire la materialità fisica di ciò che chiamiamo documento, per quanto la sua stessa rassicurante univocità strutturale da qualche tempo vacilli, incalzata da nuovi modelli di generazione e organizzazione dei nodi informativi. Negli archivi contemporanei si danno infatti casi di particolari documenti o, meglio, di insiemi di dati che in una sorta di partenogenesi informativa generano essi stessi in maniera automatica altri documenti, viste documentali, come sono state definite[41].

Detto questo le eventuali riflessioni metodologiche e la tecnologia che abbiamo a disposizione ci incoraggiano ormai ad affiancare alla tradizionale autarchia descrittiva nuove cifre espressive, magari supportate da strumenti fin qui rimasti sullo sfondo o comunque ritenuti peculiari di altri domini[42]. Sembra ipotizzabile, insomma, muovere da fondi archivistici definiti in se stessi per avventurarci tra le complessità di sistemi integrati, dove di volta in volta si sfumano, si sovrappongono e si completano le distinzioni di dominio tra archivi, biblioteche e centri di documentazione (ma il ragionamento si potrebbe allargare anche a database generalisti o tematici[43] e ad altre tipologie descrittive del tipo di quelle museali o architettoniche). Un fenomeno, questo, che peraltro non si limita alla dimensione storico culturale ma si estende anche agli archivi correnti, dove già da tempo lo si declina in termini di reingegnerizzazione dei processi e di interoperabilità. Ma seguire davvero questo tipo di pista, che sconfina nella dimensione civile, pubblica e politica degli archivi in quanto risorse di trasparenza ed efficienza imporrebbe valutazioni che non si ritiene utile e opportuno sviluppare qui[44].

Quello che soprattutto ci interessa è infatti l’impatto delle nostre considerazioni sulla percezione che possiamo avere degli archivi, senza dimenticarsi di valutare le conseguenze di questo impatto nelle pratiche di rappresentazione e comunicazione dentro alla scienza della rete e al web delle cose[45]. La tecnologia, lo abbiamo detto, orienta gli standard e, a cascata, indirizza la modellizzazione sia degli oggetti elementari che di quelli complessi della descrizione. Per effetto dell’azione congiunta di tutti questi elementi gli archivi sono scaraventati verso un orizzonte spazio temporale dove il nulla (inteso come stato di quiete comunicativa) e la materia (cioè l’archivio non tanto in atto quanto in potenza, per effetto delle sollecitazioni archivistiche) si avvicendano, aprendosi nel contempo a ondate successive di imprevedibili stimoli informativi.

Ma come potremmo definire, con un’evidente forzatura di cui conviene chiedere perdono ai fisici, lo spazio tempo archivistico?

Sembra di poter dire che questo concetto si alimenti innanzitutto dello svolgersi sinusoidale dei molti presenti che sostanziano gli archivi e la loro vicenda fisica. I complessi documentari sono del resto in prima battuta figli di presenti, fotogrammi di una pellicola che racconta realtà catturate a un momento dato. Ciò li connota fortemente all’origine, per quanto il profilo costitutivo di partenza sia destinato a sfumarsi nel tempo assumendo forme nuove e non sempre fedeli all’originale. Epifanie clamorose e altrettanto rumorosi oblii accompagnano, potremmo dire da sempre, la vita degli archivi che con un vezzo antico continuiamo a definire in senso proprio. Dentro a queste circonvoluzioni  – che si sviluppano all’interno di uno tra i molti vettori temporali immaginabili che tendiamo ad assumere convenzionalmente come unità di misura – si verificano quegli eventi che abbiamo già analizzato. E’ per effetto di questi eventi, cioè di una concatenazione di sollecitazioni descrittive o investigative, che gli archivi occupano lo spazio e si manifestano in maniera tangibile.  

Negli archivi non si va dunque in cerca di verità rivelata ma, piuttosto, di simulacri di una realtà che va costruendosi a fasi alterne, quasi frutto di aritmie ripetute. L’inespugnabile monolite documentario protetto dalla sua stessa inappellabile struttura si trasforma nel lungo periodo in un’aggregazione rocciosa erosa da un vento che non cessa mai di soffiare.

Lo spazio tempo archivistico è perciò in definitiva il risultato dell’interazione tra l’idea necessaria di archivio e il periodico manifestarsi dell’archivio stesso nella delocalizzata successione delle istanze cui soggetti diversi lo sottopongono.

Essa oscilla tra la vocazione originaria a soddisfare il bisogno naturale di testimoniare ed elaborare un presente dato, con le sue eventuali sfumature di profilo soprattutto culturale, e l’esigenza di trasformare quel bisogno in nuove, ipotetiche risposte alle domande di presenti liquidi e dinamici.

L’archivio in questa interpretazione esiste sempre, ma abita le regioni del nulla fino a quando non viene opportunamente chiamato in causa. E quando esce dallo stato di quiete, dal niente, irrompe dentro a dimensioni spaziali e cronologiche mutevoli e tendenzialmente inesauribili.

E’ a questo livello allora che l’archivio, entità singola, il fondo autarchico come lo abbiamo chiamato, si affaccia al docuverso e forse al multiverso, al tempo stesso tassello complementare e protagonista indiscusso di avventure cognitive difficilmente quantificabili e prevedibili.

Lungo queste continue circonvoluzioni i fondi archivistici si mischiano ad altri saperi. Colgono nuove opportunità di costruire il tempo e di dar voce alle smaliziate chimere che riempiono i sogni di tutti quelli che viaggiano dentro a cronache fluttuanti, destinate all’alambicco che ne distillerà fatti e, quindi, pensieri.

L’archivistica del nulla è una battaglia che si combatte su molti fronti. Vincerla forse non è possibile, ma sicuramente prendervi parte potrebbe aiutare a farci crescere.

E forse è per questo che la storia siamo noi, con occhi curiosi spalancati su cose che troppo in fretta chiamiamo memoria, convinti di chiudere un cerchio che invece ogni volta ci sfugge.

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* Dipartimento di Scienze della Formazione, Beni Culturali e Turismo, Università degli Studi di Macerata, Macerata, Italy, federico.valacchi@unimc.it

[1] J.O. Weartherall, La fisica del nulla. La strana storia dello spazio vuoto, ed. it., Bollati Boringhieri, Torino, 2017, p. 2.

[2] U. Eco, Il nome della rosa, Fabbri – Bompiani, Milano, 1980, p. 380. L’espressione, che chiude il famoso romanzo,può assumere anche sfumature archivistiche. Contrappone infatti un mitico ordine primigenio, appunto solo nominale, a una realtà fatta di nude entità fisiche dalla cui combinazione e descrizione scaturisce un insieme che è destinato ad assumere tratti diversi da quelli che ipoteticamente connotano uno stato di ordine che per convenzione e lunga tradizione metodologica definiamo originario.

[3] Si legge per esempio in classico archivistico di tutti i tempi: « [¼] risulta, dunque, che noi consideriamo l’archivio in un senso latissimo, che ne rispecchia la funzione in tutti i momenti, in tutti i luoghi, presso chiunque esista. Lo consideriamo come un tutto per sé stante; come una realtà che nasce da un cespite comune ma se ne stacca e vive di vita propria, con scopi tutti suoi, anche quando sembrino ausiliari ad altre attività, anche quando scompaiano per il gran pubblico e si sommergano nelle ondate della vita tumultuosa del giorno. Da questa concezione generale derivano le particolarità delle singole raccolte di atti, dei singoli archivi, che li distinguono li uni dagli altri» E. Casanova, Archivistica, Lazzeri, Siena, 1928, p. 21, disponibile a <http://www.icar.beniculturali.it/biblio/pdf/EuCa/totalCasanova.pdf>. Scrive inoltre Giorgio Cencetti: «Non sempre e non a tutti appar chiara la distinzione fra archivio, biblioteca, museo; e il criterio che anche i dotti usano comunemente per differenziare questi istituti (“Diamine! In biblioteca sono i libri, in archivio le carte!”) è impreciso e fallace [¼]. Ma se andiamo oltre l’appartenenza comune alla categoria delle universalità, vediamo che le analogie si arrestano ed appaiono le “differenze”», (G. Cencetti, Sull’archivio come universitas rerum, in «Archivi», Anno IV, 1937, pp. 7-13, p. 7, disponibile a <http://www.icar.beniculturali.it/biblio/pdf/articoli/univarc.PDF>).

[4] Sulle problematiche complessive legate in particolare alla diffusione di archivi informatici cfr.. S.Pigliapoco, Progetto archivio digitale. Metodologia, sistemi, professionalità, Civita Editoriale, Lucca, 2016.

[5] Tra i molti autori possibili e in diverse loro opere si possono citare Josè Saramago, Gabriel Garcìa Marquez, Italo Calvino e anche Andrea Camilleri e Paolo Rumiz.

[6] Sullo standard RIC, Record in Contexts, torneremo sotto anche in termini di riferimenti bibliografici.

[7] E.Abrahamson , D. Freedman, La forza del disordine. I benefici nascosti del caos dall’economia globale alla vita quotidiana, Rizzoli, Milano,  2007.

[8]G. Carofiglio, Scrivanie vuote in Id., Passeggeri notturni, Einaudi, Torino, 2016, pp. 80 – 82, pp. 81 – 82.

[9] «At every stage the information about the material remains dynamic and may be subject to amendment in the light offurther knowledge of its content or the context of its creation. Computerized informationsystems in particular may serve to integrate or select elements of information as required,and to update or amend them», International Council of archives, ISAD(G):General International Standard Archival Description,  Second Edition, Ottawa, 2000, Introduction, I.3. Disponibile a < https://www.ica.org/sites/default/files/CBPS_2000_Guidelines_ISAD%28G%29_Second-edition_EN.pdf>.

[10] Su questi temi risultano sempre attuali gli insegnamenti di P. Carucci, Le fonti archivistiche. Ordinamento e conservazione, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1983.

[11] Sulla natura dei vincoli, interni ed esterni, istituzionali e archivistici rimane importante, anche in direzione di riflessioni che scaturiscono da interpretazioni recenti dell’archivio A. Romiti, Il metodo storico e la teoria del vincolo unico ‘polimorfo’, in: L’adozione del metodo storico in Archivistica: origine, sviluppo, prospettive, a cura di R. M. Zaccaria, Lavegliacarlone, Battipaglia, 2009.

[12] J. Derrida, Mal di archivio. Una impressione freudiana, Filema, Napoli, 1996, p. 13.

[13] «Relazioni di tipo trascendentale che annodano il tempo e lo spazio dei dati che esse stesse processano, dove arricchimento e acquisizione sono sempre contrastati da un impulso alla conservazione, e viceversa. Nel processare la soggettività diviene sé stessa, cioè diversa da sé stessa: la soggettività è un processo definito da una forma archivio», J. L. Nancy, Dov’è successo?,  Youcanprint, Tricase (Le) 2014, p. 24.

[14] Il fenomeno è acuito dalle rivisitazioni digitali o, meglio, digitalizzate di diversi fondi archivistici, che propongono nuove versioni rispetto all’originale e fanno parlare di invented archives., cioè di aggregazioni in genere soggettive di oggetti digitali che vanno a formare entità percepite dai più come archivi ma che degli archivi in senso proprio non hanno gli elementi fondanti e caratterizzanti, risultando quindi esposti a forte rischi di decontestualizzazione e di rivisitazione dei valori informativi.

[15] Così, nel primo documento di sintesi relativo allo standard RIC, si esprime al riguardo il gruppo EGAD (Experts Group on Archival Description): «Increasingly, archivists observe that the archival perspective is one among many possible perspectives that may be employed in the understanding of records, that they themselves are performing their jobs in a particular historical (cultural, social, material) context, that their judgements and acts are shaped and informed by the contexts within which they live and work. At the same time, archivists increasingly are observing that the contexts in which records emerge and in which they exist over time are irreducibly dynamic and complex. Records in Contexts (A conceptual model for archival description »,  International Council on archives, Experts Group on Archival Description,  Consultation Draft v0.1, September 2016, p. 6. Il documento è disponibile a <https://www.ica.org/sites/default/files/RiC-CM-0.1.pdf >.

[16] A. Salarelli, Introduzione alla scienza dell’informazione, Editrice Bibliografica, Milano, 2012, p. 83.

[17] «The post-modern paradigm in the sphere of Information Sciences is having an influence on this transition toward new ways of representing information that are more in line with today’s needs and approaches. The trend is toward creating schematic representations and formats that enable integrated access via the Web to all cultural and social heritages, including access to libraries,archives, museums and art galleries»,D.Llanes-Padrón, J. A. Pastor-Sánchez, Records in contexts: the road of archives to semantic interoperability, in «Program», Vol. 51 Issue: 4, 2017, pp.387-405, pp. 387 – 388, disponibile a <https://core.ac.uk/download/pdf/132545189.pdf> .

[18] J.O. Weartherall, op. cit, p. 35.

[19] Anche per sdrammatizzare, quanto mai calzante al riguardo il verso del gruppo  Modena City Ramblers  nel  pezzo I cento passi, nell’album Viva la vida, muera la muerte!:  «Si sa dove si nasce ma non come si muore. E non se un ideale ti porterà dolore», dove l’ideale è ovviamente per noi il metodo storico, con le conseguenze di dolore archivistico che una sua applicazione troppo rigida può portare.

[20] A tale riguardo hanno sapore evocativo i versi di Eugenio Montale nella sua poesia La storia quando scrive che «La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono». E ancora «La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario». E infine il verso usato a suo tempo anche da Isabella Zanni Rosiello ad introdurre il suo Archivi e memoria storica, Il Mulino, Bologna, 1987: «La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive» (E. Montale, La Storia, in Id., Satura, Mondadori, Milano 1971. Il testo integrale della poesia è disponibile all’indirizzo <https://www.libriantichionline.com/divagazioni/eugenio_montale_la_storia.>.

[21] Al riguardo molte delle considerazioni formulate a suo tempo da Giorgio Cencetti continuano a suscitare riflessioni significative, a dimostrazione di una circolarità metodologica di cui sembra opportuno cogliere i tempi e i modi quando si vada in cerca di elementi di novità. In particolare ci si riferisce naturalmente a G. Cencetti, op. cit..

[22] Si pensi ad esempio a fenomeni come quelli dei LOD (linkedo open data). Per un primo e generico approccio al tema si può vedere F. Bauer, M. Kaltenböck, Linked Open Data:The EssentialsA Quick Start Guide for Decision Makers, Edition mono/monochrom, Vienna, 2012, il pdf del libro è disponibile a <https://www.reeep.org/LOD-the-Essentials.pdf>. Sui LOD in azione dentro ai beni culturali si veda invece M. Guerrini, T. Possematto, Linked data per biblioteche, archivi e musei, Editrice Bibliografica, Milano, 2015; degli stessi due autori cfr. ancheLinked data: un nuovo alfabeto del web semantico, in «jlis.it», vol. IV, n. 1, 2013, doi: http://dx.doi.org/10.4403/jlis.it-6305. Cfr. infine, sul tema dei big data, C.L. Borgman, Big Data, Little Data, No Data. Scholarship in the networked world, MIT Press, Cambridge (MA), 2015.

[23] J.O. Weartherall, op. cit, p. 33.

[24] E’ opportuno sottolineare al riguardo che eventuali riflessioni in merito alla possibile evoluzione della disciplina riescono a svilupparsi solo a partire dalla solidità della tradizione e dalla profondità metodologica di un’archivistica rigorosa come quella italiana. Tali riflessioni devono molto ai tanti studiosi che nel corso del tempo hanno contribuito con i loro pensieri a definire un solido statuto epistemologico cui ancora oggi dobbiamo fare riferimento se vogliamo evitare di costruire sulla sabbia.

[25] Cfr. C. Rovelli, L’ordine del tempo, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano, 2017. A p. 89  Rovelli scrive tra l’altro al riguardo: «Mi fermo e non faccio nulla. Non penso nulla. Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo. Familiare e intimo [¼] Eppure le cose sono più complicate [¼] Anche la struttura del tempo non è quella che sembra: è diversa da questo uniforme scorre universale. [¼]. Il tempo funziona diversamente da come appare».

[26] Questi fenomeni si fanno archivisticamente tangibili quando si valuti in ottica digitale un consolidato assunto archivistico come il ciclo vitale. Nella transizione digitale il respiro dell’archivio non è più regolato dall’alternarsi delle stagioni che connotano i tempi e le azioni tradizionali: corrente, deposito, storico. L’incalzare dell’obsolescenza turba questo equilibrio, ne ribalta i contenuti e spalma la funzione archivistica dentro a una ripetitività che finisce col diventare circolare, un record continuum, appunto che ci consente di parlare quasi di un cerchio della memoria.

Il record continuum è definito come A model of archival science that emphasizes overlapping characteristics of recordkeeping, evidence, transaction, and the identity of the creator [¼]. The records continuum model deemphasizes the time-bound stages of the life cycle model (<https://www2.archivists.org/glossary/terms/r/records-continuum>). Sul concetto e le conseguenze di record continuum si vedano tra gli altri S. Mc Kemmishn,  Placing records continuum theory and practice. in «Archival Science» 1, 2001, pp. 333–359, doi https://doi.org/10.1007/BF02438901. Alcune riflessioni su questo concetto si trovano anche a <https://www.sciencedirect.com/topics/computer-science/record-continuum>.

[27] Potremmo individuare in quelle che abbiamo chiamato particelle elementi ben noti come quello di item, di unità archivistica o, più in generale, e seguendo il modello ISAD, si potrebbe parlare di unità di descrizione.

[28] «L’immagine intuitiva del vuoto, quindi, è quella di un mare che ribolle di attività, o meglio ancora di possibilità, dato che le fluttuazioni riguardano ciò che potrebbe accadere all’atto della misura e non eventi reali in senso classico. Pensate alle scariche di un vecchio televisore, o a quelle di una radio tra una stazione e l’altra: non c’è un segnale vero e proprio – non ci sono particelle dotate di un’esistenza finita – ma non c’è nemmeno silenzio. C’è solo il rumore bianco, un segnale di fondo casuale e incoerente. In alcuni scenari della fisica sperimentale, in effetti, le fluttuazioni del vuoto hanno esattamente l’aspetto del rumore bianco», J.O. Weartherall, op. cit, p. 90.

[29] Su questi aspetti molto condivisibile quanto scrive C. Damiani, La memoria rappresentata: dalla descrizione inventariale agli archivi narranti, in «Officina della storia», 19/2018, 2019: «Ma si può fare di più. Dopo aver sgretolato intonaci di inaccessibilità, e patine di esclusività e di distorta sacralità, si può provare ad abbandonare una prospettiva prevalentemente divulgativa e a spostare il focus sulla scala di valori identitari che il cittadino/visitatore/fruitore può ravvisare nei complessi documentari, recepiti non più come masse informi e monotone ma come depositi di memorie intrinsecamente attivi, caratterizzati da contenuti dinamici e condivisibili. Sul versante web dove questi temi si complicano e si moltiplicano». Il testo dell’articolo è disponibile a <https://www.officinadellastoria.eu/it/2019/01/09/la-memoria-rappresentata-dalla-descrizione-inventariale-agli-archivi-narranti/>.

[30] «Inoltre negli inventari non si forniscono di solito le chiavi di lettura, esplicite o implicite, che servono per muoversi nel labirinto archivistico. I rinvii da una serie all’ altra del medesimo fondo o di fondi diversi, la possibilità di collegare tra loro documenti collocati in questa o quella parte del fondo o in più fondi, al fine di ricostruire l’itinerario di determinate pratiche e, più in generale, l’intreccio della documentazione, non vengono spesso sufficientemente spiegati. In una parola la tecnica della ricerca archivistica rimane spesso una tecnica riservata ad iniziati», I. Zanni Rosiello, Sul mestiere dell’archivista in L’archivista sul confine. Scritti di Isabella Zanni Rosiello cura di Carmela Binchi e Tiziana Di Zio, Pubblicazioni degli archivi di Stato, saggi 60, Ministero peri beni e le attività culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 2000, pp. 371 – 388, p. 384. Disponibile a <http://archivi.beniculturali.it/dga/uploads/documents/Saggi/Saggi_60.pdf>.

[31] Su RIC si veda, oltre i documenti del gruppo EGAD citati,  la sezione del sito ICA disponibile a <https://www.ica.org/en/egad-ric-conceptual-model>. Per alcuni approfondimenti si veda Descrivere gli archivi al tempo di RIC, atti del convegno, Ancona, 18 ottobre 2017, a cura di Giorgia di Marcantonio e Federico Valacchi,, Macerata, EUM, 2018.

[32] Questi concetti emergono da alcune valutazioni del citato gruppo EGAD: «RiC-CM models what may be described as “multidimensional description”.  Rather than a hierarchy, the description may take the form of a graph or network. Modelling description as a graph accommodates the single, fonds-based, multilevel description modelledin ISAD(G), but also enables addressing the more expansive understanding of provenance described above.The multidimensional model thus enables the description of the fonds, but also sees the fonds existing in a broader context, in relation to other fonds. In a multidimensional approach to description, the Records and Sets of Records, their interrelations with one another, their interrelations with Agents, Functions, Activities, Mandates, etc., and each of these with one another, are represented as a network within which individual fonds are situated. The proximate context of each fonds is established, though its boundaries are permeable, as it exists within layers of additional context containing other fonds. The model enables the fulfilmentof the Respect des fonds, but also enables addressing other types of Record Sets with complex origination (for example, a series that documents one function that is performed serially by a succession of different Agents)»,  International Council on archives, Experts Group on Archival Description,   Consultation Draft, cit. p.10.

[33] Cfr. S. Vitali, Context is everything: sharing knowledge among archives, libraries and museums, in  «LatvijasArhīvi»,  n. 3, 2008, pp. 32 – 44.

[34] Ipotesi sull’uso di modelli descrittivi trasversali ai diversi domini sono state avanzate nell’ambito del dibattito intorno a RDA (Resource Description and Access). Al riguardo si veda in generale il volume monografico di JLis.it, Vol. 7, No. 2 (2016), RDA, Resource Description and Access: The metamorphosis of cataloguing. < https://www.jlis.it/issue/view/753/showToc>. Cfr. anche C. Bianchini, M. Guerrini, Introduzione a RDA, Editrice Bibliografica, Milano, 2014, in particolare alle pp. 51 – 76.

[35] Al riguardo sembra utile fare riferimento all’esperienza del coordinamento MAB < http://www.mab-italia.org/>.

[36] Cfr. tra le molte risorse disponibilial riguardo M. Tavosanis, Lingue e intelligenza artificiale, Carocci, Roma, , 2018.

[37] «Computerized information systems in particular may serve to integrate or select elements of information as required, and to update or amend them», International Council of archives, op. cit., Introduction, I.3.

[38] International Council on archives, Experts Group on Archival Description, op. cit., p.8.

[39] «Il concetto di multiverso è estremamente controverso. Per qualcuno è una conseguenza naturale della teoria più convincente che la fisica fondamentale abbia mai conosciuto. Per altri, è un’abdicazione della scienza responsabile, è una teoria che non formula previsioni e non pone vincoli sull’aspetto che potrebbe avere la realtà. Ma non è questa la sede per dibattere questioni del genere. Limitiamoci a dire che a prescindere da ciò che pensiamo sul paesaggio delle stringhe e sulla sua ragionevolezza, si tratta di un paesaggio che contiene forme diverse di nulla. Ancora una volta, la fisica del nulla rivela la propria centralità, obbligandoci a tenere conto di una nuova concezione di come sarebbe il mondo se fosse completamente vuoto»,  J.O. Weartherall, op. cit.,  p.107.

[40] Estrapolando dalla citazione precedente quella del multiverso è appunto «è una teoria che non formula previsioni e non pone vincoli sull’aspetto che potrebbe avere la realtà».

[41] R. Guarasci, Le viste documentali, in Conservare il digitale, a cura di Stefano Pigliapoco, EUM, Macerata, 2010, pp. 177 – 191; Id., Documenti, dati, viste documentali, in «e-Health care», n. 17, 2012, pp. 81-88.

[42] S. Peruginelli, M. Rulent, S. Bruni et al, RDA e archivi: ricerca di un raccordo tra mondi diversi, in «JLis.it», Vol. 9, No. 1 (2018, doi:  http://dx.doi.org/10.4403/jlis.it-12403.

[43] Penso ai grandi portali interculturali o a banche dati storiche, archeologiche, storico artistiche e comunque a risorse che raccolgano e tematizzino in un riuso spesso virtuoso informazioni archivistiche e bibliografiche, facendo dei singoli documenti o di un insieme di essi il carburante di nuovi motori informativi.

[44] Su questi temi cfr. F. Valacchi, Gli archivi tra storia, uso e futuro, Editrice Bibliografica, Milano, 2020.

[45] Cfr. A. L. Barabási Link.. La nuova scienza delle reti, Einaudi, Torino, 2004; Id., Network science, Cambridge University Press, Cambridge, 2016.

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