Un coniglio dal cilindro. Per una possibile comunicazione degli archivi


“La realtà degli archivi è dura. Secolare incuria, congiunturale incultura, strutturale marginalità. Difficoltà se non impossibilità a entrare, come sarebbe opportuno e necessario, nel ciclo produttivo che pure sostengono. Le parole degli archivisti sono deboli, frammentate, inopinatamente titubanti. La realtà là fuori è ostile. Servono rabbia, determinazione, umiltà. Per far sì che la realtà diventi un’altra, gli archivi affollate piazze di tutti e non caverne profonde per speleologi gelosi. La realtà la possono cambiare gli archivisti, non servono miracoli che non arriveranno”[1]

Il fulcro di questo breve contributo è un racconto frutto di un processo di pura immaginazione archivistica e del bisogno di trovare nuovi modi di illustrare e comunicare gli archivi. La storiella accenna, magari in maniera poco ortodossa, a temi di lunga e/o media durata della teoria e della pratica archivistica, tentando di dar  loro un volto e uno spessore che ne fissi l’essenza al di là del linguaggio usuale e dell’approccio tecnico consueto. Potrebbe sembrare irriverente intervenire in questo modo in un volume così importante e a cui tengo molto. Ma, in fondo, il mio profondo rapporto con Marisa Borraccini è sempre stato improntato all’allegria e quindi spero che non me ne vorrà.
Il tema in sé, d’altra parte, indipendentemente da come lo si declini, è invece della massima serietà e complessità. Nella sua essenza l’archivistica, lo si dice da molto, è infatti una disciplina di comunicazione. Ma la comunicazione archivistica è fenomeno sfaccettato e complicato e porta con sé esigenze diversificate che cambiano in ragione del mutare delle finalità per cui ci si avvicina ai complessi documentari e ai contesti in cui essi sono calati. La comunicazione è una pratica che va oltre la mediazione o, meglio, arricchisce e potenzia la mediazione. Va anche oltre gli strumenti di ricerca, da cui come vedremo la comunicazione comunque muove. Gli strumenti infatti, qualunque sia l’approccio comunicativo adottato, rimangono fondamentali, sono l’unico carburante di qualsiasi processo comunicativo. Allo stesso modo rimangono centrali le consolidate pratiche archivistiche di descrizione e ordinamento. Senza queste basi è inutile pensare a qualsiasi forma di comunicazione. Va anche detto che non si deve confondere la comunicazione con la banalizzazione. Si tratta piuttosto di tarare sugli utenti quello che, con una certa compiaciuta retorica, si definisce il racconto degli archivi. In questo senso ciò che sembra necessario è una comunicazione archivistica graduale, capace di raggiungere bersagli precisi, ben identificati e che si ponga l’obiettivo di rompere il sostanziale accerchiamento che tanto penalizza gli archivi.

Raccontare gli archivi può significare anche fare uno sforzo di immaginazione, andare fuori dai canoni, quasi in odore di irrispettosa follia verso i sacri testi e una coscienza professionale talvolta rigida. Basta averne la consapevolezza e continuare, su altri fronti, il confronto con quei testi e quella coscienza,  senza abbandonare la ricerca di natura metodologica e seguendo nelle sedi scientifiche a ciò deputate le evoluzioni che accompagnano la disciplina nella concretezza delle fenomenologie archivistiche contemporanee.

Si può insomma provare a pensare a un doppio binario. Da una parte lo studio rigoroso degli archivi e delle loro evoluzioni e rivoluzioni sotto la pressione del maglio digitale, dall’altro una divertita tendenza a trarre dagli archivi oltre che un coacervo di valori un sorriso che contribuisca ad abbattere qualche barriera e ad avvicinare ai cittadini i complessi documentari e tutto quello che ruota loro intorno.

A questo punto, però, è arrivato il momento di lasciare la scena ai veri protagonisti del modello comunicativo che in questa sede commentiamo, seguendo un’avventura dei personaggi immaginari che popolano il mondo di Archinia, altrettanto immaginaria capitale di un sogno comunicativo archivistico che forse avrebbe potuto ben figurare tra le città invisibili di Calvino[2]. Di quello stesso Calvino che scriveva che “anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.

Si parva licet dentro a questo scenario immaginifico Thomas Baffo, Identità e tutti gli altri personaggi, come avremo modo di ripetere sono altrettanti simboli, forse espressione di un bisogno che cerca di uscire allo scoperto. Ma lasciamo a loro la parola.

“Identità ha quattro zampe veloci, un muso affilato, orecchie acute e una coda breve e agitata. Secondo i canoni estetici (che nella fattispecie poi sono canòni) non si può dire bello. Piuttosto lo potremmo definire intenso. Fa una vita sregolata, dentro ai vicoli di Archinia, città della memoria. Una città a sua volta non bella, non omogenea, fatta di strade che tornano su sé stesse, di piazze piene di avvenimenti non raccontati, raccolti in cumuli che arrivano fino alla sommità di strani palazzi con finestre che guardano all’interno. Le torri di Memoria sono fatte di mattoni di tempo che fluttuano in uno spazio vago e indefinito. Ci sono fontane da cui sgorgano ore nuove di zecca che subito invecchiano. E’ circondata dai Monti dell’Oblio alti, tenebrosi e quasi invalicabili. Gli abitanti si procacciano da vivere scavando tra i mucchi di fatti, alla ricerca di scoop da vendere al Grande Cugino, despota incontrastato. Si vive di fatti ad Archinia, ma di fatti raccontati, già accaduti oppure che ancora devono accadere,  non si sa come, quando e dove. Non esiste il presente in senso stretto. Non c’è tempo per il presente lì.

Identità è specializzato nella caccia ai non detti. Cioè a quei fatti che non essendo stati raccontati non esistono e giacciono inerti nei mucchi. I non detti sono piccole e tremolanti anime verdi con gli occhi incassati dentro corpi di lemure. Tutto oscilla ad Archinia, e così anche i mucchi di fatti. Non sono poche le volte che Identità finisce incastrato sotto a cumuli di vicende. Le più spigolose sono le assemblee condominiali, retaggio drammatico delle umane miserie. Identità ha fiuto, sa scovare fatti freschi di storia, stanare il pensiero, imbrancare come un cane da pastore greggi di dati riottosi. Ma Identità è in fondo un sovversivo. Non ama il Grande Cugino, non caccia per lui. Identità porta acqua al mulino dei conigli sapienti, setta visionaria che fa del tempo e dei suoi ghirigori la prpria lotta armata di parole. I conigli sapienti si nascondono nelle pieghe della valle del Senso, dove vivono in tane sicure. Sono attenti a dettagli in apparenza insignificanti, si nutrono esclusivamente di carote contestualizzate e di cellulosa frutto degli scarti. E ruminano dati e date. Instancabili. Così come il Grande Cugino infesta l’etere di raffinata banalità suadente, i conigli disseminano dubbi, raccontano storie di esseri strani, mutanti del tempo e dello spazio. E Identità è il loro fornitore. Cacciatore dal fiuto indiscutibile sempre vestito di un largo gilet a toppe, Identità si aggira di notte per le strade di Archinia. Sa che Thomas Baffo, il capo dei conigli sapienti, predilige avanzi di fatti, particolari poco evidenti che egli sa trasformare in possibili controverità. Stralci di parole di un notaio, confidenze di un gesuita, sussurri di rivoluzionari, ogni piccola traccia scatena l’attenzione di Identità. Lo strano cane costruisce se stesso ogni notte, indugiando dubbioso su cumuli di macerie fattuali. Il suo sogno è quello di penetrare nel grande edificio, quello che chiamano il Palazzo dei Fatti Veri o, i più raffinati, il Locus Credibilis, per carpirne e violarne i presunti segreti. Prepara da tempo l’incursione e tante volte ne ha parlato con Thomas Baffo, ansioso come lui di attingere a quella fonte inesauribile di possibili realtà. La sorveglianza però è stretta. Il Grande Cugino, consapevole dell’importanza del controllo del palazzo e dei suoi contenuti, ne ha affidato la custodia ai temibili occhiuti. Costoro, in spolverina, mascherina e occhiali, tutti ingobbiti dal lungo penare sulle carte, hanno costruito trincee di polvere e luoghi comuni e li hanno innalzati a difesa dei fatti che l’edificio, situato su uno sperone di roccia perennemente tormentato dal tuono della tradizione, gelosamente conserva. Quella degli occhiuti è una casta tristemente famosa. Si nutrono esclusivamente di brodo di pergamena, carta macerata e, si mormora con orrore, di membra di peroniani. Dominano dall’alto l’edificio, o meglio il castello delle presunte verità. Non lasciano avvicinare nessuno senza il lasciapassare del Grande Cugino, e alimentano miti nefasti per tenere lontani gli abitanti di Archinia dalla loro roccaforte. Si racconta sommessamente di fantasmi orribili che si agitano tra gli scaffali. Si dice che essi trascinino rumorosamente manuali di gestione e set di temibili metadati. Pesanti inventari, taglienti regesti, acuminati transunti sono le loro armi. Il più occhiuto degli occhiuti, detto il direttore, presidia personalmente le stanze di accesso per evitare intrusioni e contaminazioni.

Sembra una situazione senza tempo, immersa in un tempo circolare che non riconosce più sé stesso. E la città intorno vegeta, afflitta da una grave malnutrizione informativa e da profonde crisi esistenziali.

Ma Identità alla fine si decide. Affronterà gli occhiuti. Per farlo già da tempo ha iniziato un percorso iniziatico presso la locale Abbazia della Sacra Carta. Il percorso è  volto al conseguimento del diploma di volontario esploratore, unico tipo di lavoratore che il Grande Cugino ammette nell’edificio sacro, sfruttandolo a più non posso. Il percorso è difficile ma grazie ai consigli dell’amico Baffo l’arguto animale si è impossessato dei saperi che consentono di interpretare gli scrigni magici. Sa ormai di paleografia dello scontrino medievale, neografia (disciplina che studia le carte geografiche dopo la caduta del muro di Berlino e la moltiplicazione delle province sarde) di diplomatica applicata ai cristalli di neve, di storia dei vessilli preunitari nel Mezzogiorno d’Italia e di altre discipline di simile ordine cosmico e generale. Abbandona il suo gilet, si traveste con un completo da volontario rigorosamente OVS, impara a camminare su due zampe e si presenta al castello. L’occhiuto lo squadra insospettito e sembra non cascarci.  “Chi saresti tu con questo muso affilato?” Gli chiede. E Identità, pronto, “sono un ccva (cioè un colui che vuole aiutare).” “E in che cosa pensi di essere utile ?”  “Posso spolverare scaffali, uccidere ragni, spostare mazzi di carte, inseguire i pinguini che si annidano nei faldoni.

“Per entrare e essere ammesso al cospetto delle segrete cose (e l’occhiuto si inchina deferente) dovrai superare il fossato del tempo che vola. Te la senti? Nel fossato nuotano filze voraci e rari esemplari di Cencetti vincolatus, una universitas rerum feroce, sappilo”. “Ho con me i miei amuleti” disse Identità. “Ci proverò”. Si avvicina al fossato con volto impavido, ma temendo in cuor suo di finire sopraffatto da tutta quella dottrina. Finge di pregare non la materie ma le istituzioni, ripassa mentalmente il principio di provenienza, si specchia nelle acque e estrae dallo zaino un pacchetto. E’ uno speciale volume di gomma, una rara copia gonfiabile dell’inventario del Regio Archivio di Stato in Lucca. Gonfia il piccolo tomo che si fa zattera e si cala nel fossato. Immediatamente alla sua destra si erge un minaccioso Baldassarre Bonifacio, urlante. Identità se ne libera con una delle 1000 versioni note del codice dell’amministrazione digitale che ha con sé e si inoltra nelle acque limacciose salmodiando le regole tecniche del medesimo CAD. Non è ancora a metà quando dall’alto del castello un occhiuto gli scaraventa contro una raffica di titolari, tra cui il letale Titulus, titolarione dei titolari. Di fronte a tanta minaccia Identità si vede perduto. Oscilla smarrito, indietreggia. Poi l’illuminazione. “Ontologie”, tuona con tutte le forze. C’è un rumore sinistro le tassonomie si accartocciano procedono in maniera orribile dal particolare al generale e infine scompaiono lasciandosi dietro un vago odore di albero rovesciato carbonizzato. Identità rincuorato procede e intravede l’altra sponda ma qui gli si palesa l’ostacolo più imprevisto e arcigno. L’intera tribù dei sistemi informativi, guidati dal famelico SAN, lo scruta minacciosa. Sono molti, selvaggi, parlano lingue incomprensibili ai più. Sono vestiti di cangianti gerarchie, agitano soggetti produttori come clave. Eccoli, arcigni, SIAS, SIUSA, SIASFI, SIASVE, e poi la Guida dalle due teste e il fantasma dell’Archivio Multimediale del Mediterraneo. Stavolta Identità sembra perduto. A nulla serve evocare gli spiriti benigni del buon senso e della corretta amministrazione. Occhiuti narcisisti incitano selvaggiamente i sistemi che si impennano, si gonfiano. Poi, d’improvviso, squilla un telefono. Dall’altro capo del filo (l’edificio non può permettersi wireless) si sente una voce un po’ incerta, abbastanza palesemente camuffata: “Salve sono un utente, cerco contenuti, non strutture e sovrastrutture”. Cade un silenzio ancestrale. SAN sbianca, sbricia nei portali tematici, balbetta metadati di scambio con i sitemi aderenti. Gli occhiuti si guardano interdetti. Poi tutti, in rotta, corrono a ripararsi nel castello. Al telefono, ovviamente, era Thomas Baffo, in uno dei suoi più riusciti travestimenti, quello dell’ignaro utente. Identità tocca trionfante l’altra riva, sgonfia il Bongi lo ripone nello zaino delle avite descrizioni e si incammina verso il castello. Sulla porta, ovviamente, incontra un guardiano. E chi altro?. Non è però un portiere qualunque. E’ stato selezionato tra quelli provenienti da Prestigiosi Istituti. Ha il giusto sussiego, la necessaria punta di disprezzo per l’interlocutore, lo sguardo sprezzante verso i comuni mortali. Chiede a Identità di declinare le proprie generalità rimontando quattro generazioni, lo interroga sui gusti alimentari, lo tocca appena con la punta di un bastone e infine fa scattare il meccanismo della porta. Entrando, per poco Identità non sviene di colpo. Essere ammessi alla corte del tempo, vedere dal vivo il paradiso dei dati…rischia di essere troppo per lui. Sulla parete campeggia un monito: Sia lode al Soggetto Produttore. Mentre ancora indugia con lo sguardo sulle navicelle leggere che trasportano e organizzano memoria da un lato all’altro dell’enorme stanza centrale, si sente chiamare per nome. “Vieni! Noi sappiamo tutto e non pensare di averci ingannato. Adesso sei qui e ci aiuterai a debellare i conigli sapienti in nome del Grande Cugino”. A parlare è un tappetto coi tacchi, gli immancabili occhiali, che mentre si sposta snocciola un rosario di sacri testi. Inutile citarli. Sono sacri mica per niente. Porta Identità in una stanzetta dalle cui pareti pendono anime di carta che sbucano da faldoni poderosi. “Dov’è Baffo? “, chiede il tappetto. “Perché si ostina a negare la sola, gerarchica, piramidale, monolitica verità?” Identità è un cane di mondo, prende tempo. “Bel posto qui, forse vagamente ossessivo con tutte queste anime…”Si becca il volume degli indici della Guida Generale di taglio in pieno stomaco. Traballa. Gli scagliano contro pure l’introduzione della Guida, gravida di tempo. Identità resiste ripassando mentalmente gli standard da ISAD a RIC. “Non vuoi collaborare? Ci pensiamo noi”. L’ometto batte le mani e entra un altro attempato occhiuto con delle schede in mano. Identità guarda meglio. Capisce di che si tratta: vincolo extraistituzionale esterno. Sbianca come possono sbiancare i cani, cioè non sbianca, immagina di impallidire. Insomma, non importa. Ma trema impaurito. Il vecchietto inizia a parlare e si avvicina lentamente all’acme della tortura. Identità sente che sta per perdere i sensi… Il vecchietto si ferma. Identità respira affannato poi, in un soffio, dice… “Parlerò. Non lo si biasimi. Nulla e nessuno può resistere al vincolo extraistituzionale esterno, creatura mostruosa che attorciglia fisicamente i neuroni e ingolfa orridamente le sinapsi.

“I conigli sapienti – dice Identità- vivono fuori dalla città di Archinia, in una vallata cosparsa di luce azzurrognola. Non praticano il culto del tempo, né quello dello spazio. Credono nella coscienza, filtro di tutte le informazioni. Non c’è gerarchia descrittiva, né ansiosa tassonomia. La società dei conigli è una rete distesa tra le colline. Si nutrono di contesti, carote contestualizzate, e producono ogni giorno contenuti in formato aperto che regalano sui banchetti fuori dalle tane  a chi li voglia utilizzare. Pregano la dea interoperabilità e credono nel futuro, che non sia schiavo del passato. Hanno sostituito da tempo i sistemi informativi con algoritmi semantici rapidi e silenziosi come la neve. Sono allergici ai beni culturali intesi come specializzazioni di dominio. Una didascalia museale ne può stendere tre o quattro in un colpo solo”. Temono come il Demonio l’ICCD.” Si pente subito di quello che ha detto ma l’ometto è ancora lì, brandendo il vincolo. Poi di improvviso si ricorda che può esserci una via d’uscita. Una soluzione per salvare, per così dire, coniglio e cavoli. “Io ho collaborato” disse al primo occhiuto. “Ora che farete di me?”  “Semplice, sarai sciolto nel diplomatico” – risponde quello impassibile- “Lo immaginavo – dice Identità , ma, vede io ho delle capacità particolari, forse potrei esservi utile. So muovermi a naso dentro al metodo storico, so fiutare l’ordine originario. Non c’è soggetto produttore che possa sfuggirmi e mi sono alimentato a lungo con le NIERA, fino a una sorta di mitridatizzazione- proprio per questo. Ho frequentato le scuole di metodo canino, studiato i testi di Eugenio Canenova e Giorgio Cagnetti e il mio olfatto non mi inganna: da un semplice brandello di documento so risalire all’ordine quale era”. “Mmmhh” dice l’occhiuto. Dovrai dimostrarlo”. Prende un frammento di bastardello solo e decontestualizzato come solo certi bastardelli sanno essere e lo porge a Identità. Il cane lo guarda e soprattutto lo annusa. Poi dice “Posso muovermi?” E tornato finalmente sulle più comode quattro zampe e schizza veloce fuori dalla stanza. Percorre col naso a terra decine di sale tappezzate di scaffali, seguito da un numero crescente di occhiuti. Ogni tanto si ferma, fiuta l’aria satura di polvere ammorbante e riparte. Si ferma sulla soglia di una porta di metallo. Gli occhiuti ghignano. “Quella -dice uno di loro- è la porta che conduce negli scantinati dei senza soggetto, ovvero dei casi impossibili, tutta informazione che non serve. Incurabile. Neppure ricorrendo a massicce applicazioni di iperfondo, la pozione più assurda e potente di cui disponiamo”. “Apritela” dice Identità. Sceso in cantina punta decisamente verso uno scaffale e guaisce di soddisfazione: appoggiato lì sopra stava l’altro pezzo del bastardello che, ricomposto rivela il nome del notaio e, ovviamente, tutto il resto è noia. Tutti eccitati gli occhiuti decidono che bisogna illustrare il fenomenale evento addirittura a mister MIBACT, il magnate straniero che a tempo perso si occupava anche di loro, nella speranza che questa volta tra un film e un museo li avrebbe pressi in considerazione. Fu necessaria una lunga anticamera ma finalmente mister Mibact, che di nome faceva talvolta Dario, anzi Dary, li ricevette. Gli occhiuti magnificarono le doti del cane ma MIBACT non ne capiva l’utilità e chiese semplicemente se sapeva digitalizzare con le orecchie, perché aveva una certa idea…Fu a questo punto che Identità approfittando della delusione e dell’imbarazzo degli occhiuti schizzò come un fulmine verso la finestra gonfiò il Bongi lo scaraventò di sotto e ci si lanciò sopra. In quell’istante passava Thomas Baffo a bordo della sua potente autovettura alimentata a LOD (da cui tessere le LOD di Baffo, dice sempre Identità che è un vero burlone). I due fuggirono verso la valle dei conigli sapienti per organizzare la resistenza. Agli occhiuti rimase solo l’odore del solito albero rovesciato in fiamme, che era stato incendiato da Baffo per ostacolare l’inseguimento”[3].

Questi dunque gli avvenimenti. Lasciando Thomas Baffo e Identità ad organizzare la loro personalissima Resistenza possiamo quindi abbandonare per il momento Archinia e i luoghi dove si muovono i protagonisti di questa scanzonata burla archivistica, per tentare di capire quale sia il contesto più ampio entro al quale si debba ricondurre un simile tentativo comunicativo. Precisando naturalmente che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale…

In questo senso sembra allora inevitabile tornare al punto di partenza, alle forme e ai modelli della comunicazione archivistica. Magari ribadendo subito un concetto fondante, quello della polifunzionalità degli archivi, che porta con sé una molteplicità di modalità d’uso e un accavallarsi, quasi verrebbe da dire un accanirsi, di prassi intorno ai complessi documentari. Magari si potrebbe anche riflettere sull’uso pubblico, attivo, degli archivi, nel tentativo di coglierne il ruolo di collante non solo culturale di interi tessuti sociali. Gli archivi valutati quindi come patrimonio comune, funzionali ad esigenze civili, sociali e politiche, ancor prima che storiche e culturali hanno del resto un disperato bisogno di uscire dalle gabbie dei tecnicismi.

In fondo proprio in questo senso va probabilmente letta anche la dichiarazione di intenti che si coglie nell’introduzione a ISAD(G) quando afferma che obiettivo della descrizione archivistica è “identificare ed illustrare il contesto e il contenuto della documentazione archivistica per promuoverne l’accessibilità (…) attività connesse all’elaborazione di descrizioni archivistiche possono cominciare fin dal momento della formazione dei documenti, o anche in precedenza, e proseguire nel corso della vita dei documenti stessi”[4]. La descrizione lungo tutto il ciclo vitale è dunque finalizzata a sostenere quella polifunzionalità cui alludevamo sopra e a rendere possibile, in ultima analisi, una fruizione costante e diversificata nei fini. Si comunica però, indipendentemente dalla forma e dai modelli, solo ciò che si conosce e che si conosce a fondo. La dimensione tecnico scientifica è ineludibile, la fantasia senza basi rigorose non serve.

E allora, trattando questi temi, non si può intanto evitare di tornare all’archivista mediatore di Isabella Zanni Rosiello[5], alla mediazione che si manifesta nella decodifica, nel tentativo di risolvere le complesse tortuosità che sostanziano i fondi e la stessa disciplina archivistica.

In tempi di apparente accanimento digitale conviene tentare di continuare a tenere la barra al centro. E il centro rimane e rimarrà (io credo anche in ambiente digitale, con gli opportuni accorgimenti) la nostra volontà e capacità di descrivere gli archivi. Sembra ovvio ma non sempre lo è, soprattutto quando le sirene della digitalizzazione tendono a distrarre i naviganti o, almeno, gli armatori. La descrizione archivistica al servizio della mediazione è, come è noto, un processo complesso, che porta a paragonare l’archivista a uno scassinatore d’alto rango, intento non tanto a carpire chissà quali segreti quanto a tentare di srotolare davanti agli occhi degli utenti la matassa dei diritti e della conoscenza, le garanzie politiche, democratiche, potremmo dire, e quei fenomeni che vengono da uno o più passati e che taluni chiamano storia. Descrivere significa, e lo sappiamo bene, far respirare gli archivi.

La figura professionale dell’archivista, oggi più che mai scissa tra i bisogni (e le emergenze) del presente che guarda al futuro e le esigenze ruggenti dei molti passati che si annidano negli scaffali, ,tra le molte possibili interpretazioni con cui si è tentato di ancorarla alla realtà, è stata a suo tempo definita “strana”[6]. Una definizione tutto sommato azzeccata che ben restituisce il senso dell’agire archivistico, sospeso tra un interiore studio matto e disperatissimo e il bisogno (per molti, anche se non per tutti) di raccontare al mondo gli obiettivi che ha raggiunto.

In questa sede tralasceremo le complessità e le incertezze che attanagliano la professione nel contesto digitale, che pure meriterebbero più di una riflessione, fosse solo per tentare di capire cosa diventa la mediazione dentro al web semantico o all’interoperabilità e in che modo si possa continuare ad esercitare lo strano mestiere dentro a scenari algocratici fatti di galoppante e inquietante liquefazione degli archivi. Ci concentreremo piuttosto sull’habitat all’interno del quale si colloca il nostro racconto, nel tentativo, privo di ogni pretesa di esaustività, di individuare quali siano le possibili forme di mediazione e in che modo le si possa tradurre in una comunicazione duttile ed efficace. Perché non basta dire che si vogliono “raccontare gli archivi”. L’espressione in sé non dice nulla, se ci si guarda dentro si rischia di trovarla vuota. Perché il racconto degli archivi, in fondo, sta negli archivi stessi, non in più o meno ardite estrapolazioni retoriche, figlie di suggestioni passeggere e di condizionamenti di ogni ordine e grado.

Il racconto degli archivi si innesca invece con il processo di ordinamento, con la descrizione scientifica, quanto più possibile puntuale. Il ceppo comunicativo da cui si dipanano tutti i diversi e possibili rami, rimane quello di sempre, così come i doveri di natura deontologica degli archivisti sono sempre gli stessi. Tutelare, descrivere, ordinare, inventariare, questo è l’inevitabile mantra.

Certo,   in qualche modo anche la descrizione è un processo creativo perché, come ci hanno insegnato i grandi maestri, gli archivi sono difficili da rinchiudere dentro a steccati metodologici e tecnici rigidi e rigorosi. E lo dimostra del resto anche la fatica che gli stessi standard fanno a metterli a fuoco o il relativo affanno dei software di descrizione e ordinamento che degli standard sono discendenza diretta. Ciò non toglie però che determinati approcci, precise scelte tecniche e articolate competenze debbano orientare la prima fase del lavoro archivistico. Fino ad arrivare al livello base della comunicazione, gli strumenti di ricerca, magari recependo l’espressione in forma ampia e annoverando tra gli strumenti, accanto agli inventari, risorse di natura diversa, quasi sempre digitale, quali i sistemi informativi –citati nel nostro raccontino – e alcuni portali, a cominciare da SAN. Ognuno di questi strumenti garantisce il diritto alla ricerca e, almeno in potenza, la soddisfazione dei ricercatori,  soprattutto di quelli specialisti. Poi la ricerca naturalmente si diversifica, e si manifesta sia in forma puntuale (cioè mirata a un singolo fondo) che generale (vale a dire tesa alla individuazione di sistemi di fonti).  La contemporaneità tende a collocare nel web queste risorse che rappresentano il punto più alto della cultura e della coscienza archivistica. Ciò significa che la mediazione deve fare i conti con nuovi agenti e con nuove strategie che in qualche modo rimodellano i bisogni e le modalità della comunicazione di base che tali strumenti nel loro insieme garantiscono[7]. Lo scintillio digitale può condizionare la visione di insieme, segnando una distinzione e un diverso livello di accessibilità tra ciò che è digitale e ciò che continua a galleggiare nella palude analogica, più ricca e popolata di quanto un’ingenua lettura telematica di questi fenomeni potrebbe far pensare.

La ricerca “alta”, dunque continua a parlare con gli archivi secondo paradigmi consueti e utilizzando strumenti che, quando ben realizzati, non hanno bisogno di nessun ulteriore approfondimento per garantire la soddisfazione di una certa tipologia di utente. Ci sarebbe casomai da notare sommessamente (ma non troppo) come molti fondi archivistici, di diverse tipologie e da diversi soggetti prodotti e conservati, restino in attesa che l’afflato della descrizione li risvegli dall’inevitabile oblio cui sono destinati gli archivi non ordinati. Ma qui si scivola sul terreno insidioso e complesso delle politiche culturali. In questa sede al riguardo si può solo esprimere l’auspicio che chi è chiamato a impostare tali politiche e a indirizzare le magre risorse disponibili esca dall’abbacinamento digitale e sappia trovare il giusto equilibrio tra digitalizzazione e concreto riordino sul campo. Con quello che ne consegue per il lavoro dei molti e competenti professionisti che si aggirano per i nostri archivi.

Detto tutto questo e chiarito che il primo livello della comunicazione non è né vecchio né nuovo ma semplicemente “archivistico”, torniamo ai conigli, cioè al tentativo di diversificare la comunicazione archivistica adeguando competenze e conoscenze a scenari mutevoli e mutevoli esigenze.

In questo senso tornano utili Thomas Baffo, Identità e tutti gli altri abitanti di Archinia. Il loro ruolo è quello di sdrammatizzare, di creare un’interfaccia amichevole per gli archivi che sia capace di avvicinarsi, magari con un sorriso, a tipologie di utenti diversi dai professionisti. Niente di rivoluzionario, per carità, negli anni non sono mancati tentativi di questo genere, anche se l’archivistica italiana non manifesta propriamente le sue eccellenze in questo settore.

Forse la novità di Archinia sta nel tentativo di agganciarsi a una riflessione sull’archivistica pubblica, sull’attivismo archivistico[8] che sembra prendere sempre più piede anche nel nostro paese dopo essersi pienamente affermata nei paesi anglosassoni.

Il racconto che abbiamo introdotto in fondo è questo, un sorridente sogno ad occhi aperti, l’anelito buffo al superamento consapevole di barriere che oltre un certo livello diventano ridicole e controproducenti. Thomas Baffo non è un eroe. Vorrebbe piuttosto essere l’antidoto a una certa seriosità, il simbolo del bisogno di rompere e interrompere un accerchiamento, una distanza dalla società che intristisce prima di tutti gli stessi archivisti. Le avventura di Archinia, insomma, non solo come metafora semiseria, ma come antidoto a una pseudo normalità fatta di distanza dalla realtà quotidiana, che finisce con lo strangolare archivi e archivisti. Il cilindro da cui il coniglio e i suoi amici emergono è molto profondo e, per certi versi, frastagliato. Ma quella di Archinia è gente tenace e, sotto certi punti di vista, competente. E ha le idee chiare. Si pone l’obiettivo non tanto di raccontare gli archivi quanto di comunicarli nel senso pieno del termine. Il che significa rendere innanzitutto comprensibile a tutti l’articolata essenza dei cosiddetti valori archivistici, magari maturando la capacità di trasformare una certa ostile seriosità in proficua autoironia.

In questo caso si parla di archivi non tanto come strumenti di garanzia del diritto o come caleidoscopici sistemi di fonti quanto come habitat informativo, intersezione di contesti, di prassi, di modelli conservativi, di strumenti, di opportunità e, naturalmente, di criticità.

Ricorrere a personaggi immaginari che si muovono all’interno di scenari altrettanto immaginari, ricostruiti peraltro attraverso i bei disegni realizzati a questo scopo da Salvatore Renna, può servire ad avviare un’alfabetizzazione archivistica di base. In prima battuta, quindi, ci si rivolge a un pubblico molto giovane, nella convinzione che un limite importante nella diffusione di una cultura consapevole della dimensione archivistica sia rappresentato dall’assordante silenzio in materia che si registra nei percorsi di studio primari e secondari.

L’archivistica è infatti una scoperta che una parte piuttosto esigua dei cittadini studenti fa solo nel momento in cui approda all’Università quando per certi versi ormai risulta spesso faticoso metabolizzare certi concetti o, meglio, determinati usi e costumi.

Quindi una linea portante del processo comunicativo è quella che passa attraverso gli studi primari e secondari, con l’obiettivo di fondo di contribuire, attraverso la diffusione dei valori archivistici, alla crescita e alla maturazione di cittadini consapevoli.

Gli archivi, del resto, tra le altre cose, sono importanti generatori di consapevolezza, sia che garantiscano diritto e trasparenza sia che propongano alla riflessione contemporanea i molti passati che li hanno generati.

Indipendentemente dalle formule,  Archinia è solo una delle opportunità tra le molte possibili[9] di attingere a modelli comunicativi dell’archivistica capaci di rompere gli schemi nel rispetto sia del metodo che di una secolare tradizione. In Thomas Baffo e nei suoi compagni di strada convivono, o almeno questo è l’auspicio, solidi valori “tradizionali” e la volontà di dare lustro e visibilità a questi valori. Per certi versi questa location e questi personaggi rispondono a un bisogno stringente che personalmente avverto ogni volta che tento di comparare l’importanza civile degli archivi con il loro livello di penetrazione nella società.

Ma, probabilmente, il portato di questo approccio non si esaurisce in una sorridente campagna di sensibilizzazione e divulgazione. Se lo leggiamo in controluce il racconto e ciò che ne deriva possono forse essere utili anche a un pubblico già archivisticamente consapevole e sicuramente certi passaggi presuppongono competenze più mature di quelle che ci si possono aspettare da utenti che potremmo con brutta espressione definire generalisti. Il team di Baffo infatti non contempla estaticamente gli archivi e non si limita a sottolinearne la inevitabile bellezza, atteggiamento quanto mai pernicioso e fuorviante, foriero di stalli inenarrabili. Né indugia troppo su quello strisciante vittimismo che talvolta condiziona la nostra comunità. Potremmo dire, al contrario, che esercita un forte e necessario spirito critico, nel tentativo se non di scardinare,  almeno di tentare di modificare modelli che risultano ormai troppo datati. A partire dal sistema di organizzazione della conservazione, spesso caratterizzato da un arroccamento disciplinare e normativo poco rispondente alle caratteristiche e alle esigenze della società contemporanea. Come si è detto da più parti gli archivi in questo scorcio di terzo millennio manifestano esigenze diverse da quelle che ne hanno sostanzialmente cristallizzato l’espressione nella seconda metà del Novecento. Le istanze novecentesche, che muovono dalle ragionate suggestioni di Claudio Pavone e Filippo Valenti, perfettamente metabolizzate e restituite in forma assai articolata tra gli altri da studiose come Paola Carucci e Isabella Zanni Rosiello, sembrano ormai più dei trampolini per spiccare un salto verso un futuro realisticamente sostenibile che piattaforme solide, statiche, definitive. E il problema, secondo me, non risiede soltanto nell’evoluzione tecnologica, fenomeno cui troppo spesso riconosciamo un ruolo più pervasivo di quanto lo abbia nella realtà. L’affanno del modello archivistico attualmente in auge si manifesta piuttosto nella difficoltà che la disciplina e i suoi variegati interpreti incontrano nei confronti di una società in definitiva assai meno stabile che in passato, frantumata com’è in arcipelaghi informativi di diverso ordine e grado e in modelli comunicativi contorti e condizionati da una serie di fattori di natura tecnologica ma anche e forse soprattutto antropologica. Le frontiere si spostano ogni giorno e per far fronte a questi modelli serve una guerra di movimento, non certo di trincea.

Gli abitanti di Archinia, allora, sono critici attenti di questi fenomeni e ci chiamano a una riflessione strutturale, al bisogno di un adeguamento prima di tutto normativo. Il Grande Castello continuerà ad esistere, ma più come museo della memoria che come reale strumento di supporto al presente. Nuovi modelli conservativi, non del tutto condivisibili e per certi versi pericolosi, sono già tra noi e si incarnano ad esempio in quei soggetti accreditati alla conservazione digitale dal profilo archivisticamente assai sfuggente benedetti da AGID. Sembra perciò, mentre ci si batte per una più capillare diffusione dei valori ancora prima che dei contenuti archivistici, da perseguire con tutti i mezzi, che sia necessario ripensare politiche, strategie e modalità di azione, provando a compiere uno sforzo che certo non sembra indifferente, nella misura in cui incrocia psicologie fortemente strutturate ed ancorate, quasi per non farsi trascinare via da questa sorta di alluvione documentale, a modelli le cui zoppie sono sotto gli occhi di tutti.

Non sarà certo Baffo a salvare il mondo archivistico, che ha bisogno di un’analisi molto più approfondita di quella che può sviluppare un coniglio immaginario, ma forse si può partire dalle provocazioni di Baffo e dei suoi amici, dall’aria che si respira ad Archinia, per riflettere ulteriormente non solo sul tema della comunicazione ma anche sulle aspettative che legittimamente il confronto con il  mondo articolato e affascinante che noi chiamiamo archivi, con una parola che non basta più a sé stessa, può sollevare. Quello che ci serve probabilmente è una comunicazione critica, capace di intercettare attenzioni esterne ma anche di contribuire a coagulare istanze tutte interne al mondo archivistico, riducendone la frammentarietà nel tentativo di mettere a fattor comune energie che pure si sprigionano dal lavoro quotidiano dei molti attori che calcano un palcoscenico senza dubbio affascinante. Evitando magari di essere travolti dalla banalità del concetto di valorizzazione, etichetta acritica che in un certo tipo di percezione sembra essere il perdono di ogni peccato e che invece solo raramente è sostanziata da contenuti concreti. La valorizzazione degli archivi, del resto, si fa in archivio, mettendo sensibilità e competenze tecniche al servizio della descrizione, del riordino e dell’inventariazione, creando cioè le condizioni per processi di articolata fruibilità e di diffusione dei valori che arrivano direttamente da un solido codice deontologico.

Thomas Baffo, strampalato testimonial di un mondo che comunque amiamo, ha impresso nel suo DNA proprio il bisogno di aprire gli archivi e adattarli alle esigenze di ognuno.

Un’adorabile pazzia, la sua.

C’è pazzia nel tempo che compie giravolte inconsulte scagliando le pietre della memoria in ogni direzione. Pazzia c’è nelle dita di quelli che il tempo sfidano immergendosi nelle sue pieghe a rischio dell’intelletto. E c’è pazzia nel sogno dell’ordine: atto superbo e folle che scatena l’invidia degli dei. L’archivio è esso stesso pazzia, la pazzia lucida e terribile di un ordine che non c’è[10].

FEDERICO VALACCHI


[1] Federico Valacchi, Archivio. Concetti e parole, Milano, Editrice Bibliografica, 2018, p. 61.

[2] Italo Calvino, Le città invisibili, Roma, Einaudi 1972.

[3] Il testo è disponibile, insieme ad altri simili e a considerazioni di ordine generale sulla disciplina archivistica,sul blog Archivistica Attiva, /archivisticattiva. Nello specifico all’indirizzo /archivisticattiva/il-cane-identita-alla-scoperta-del-grande-castello/.

[4] General International Standard Archival Description, Seconda edizione, Stoccolma, 1999, Introduzione paragrafo 2.

[5] Sulla figura dell’archivista mediatore si vedano le riflessioni di Isabella Zanni Rosiello riportate nel volume L’archivista sul confine. Scritti di Isabella Zanni Rosiello, a cura di Carmela Binchi e Tiziana Di Zio,Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 2000.

[6] Tanto per restare in tema zoologico si veda Stefano Vital,  Di angeli, di paperi e di conigli, ovvero dello strano mestiere dell’archivista  <<Archivi per la storia>>, XVI (2001), 1-2: numero speciale su “Professione: archivista. 1949-1999. I cinquant’anni dell’ANAI” Atti del Convegno, Trento-Bolzano, 24-26 novembre 1999), pp. 179-186.

[7] Mi permetto di rinviare al riguardo, per quanto ormai inevitabilmente datato, a Federico Valacchi, Una panoramica sugli inventari archivistici nel web, <<JLIS.it>>,. Vol. 2, n. 1 (Giugno/June 2011), pp. 1 -18.

[8] Al riguardo si veda ad esempio il gruppo Facebook “Archivistica attiva”, https://www.facebook.com/groups/1290584064370346/.

[9] Si veda ad esempio Top’ivio, il topo di archivio protagonista della campagna di didattica degli archivi portata avanti dall’Archivio di Stato di Biella, http://www.asbi.it/index.html?fase=armadio.

[10] Federico Valacchi, Archivio,  cit., p. 97.

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