Archivistica parola plurale

«Arché, ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando. Questo nome coordina apparentemente due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia, là dove le cose cominciano, principio fisico, storico o ontologico – ma anche il principio secondo la legge, là dove uomini e dèi comandano, là dove si esercita l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo a partire da  cui  l’ordine  è  dato»[1].

 

Archivistica, parola plurale

Premessa

L’archivistica – soprattutto quella contemporanea – è una disciplina per certi versi necessariamente indeterminata e “liquida”, perché sostanzialmente indeterminati e liquidi sono gli archivi che essa studia. I nostri punti di riferimento teorici, più o meno consolidati, si scontrano costantemente con la realtà della produzione, dell’uso e della conservazione, che è spesso distante dalla teoria o, meglio, la sopravanza. Ciò impone uno sforzo inesausto di ridefinizione dei modelli e delle prassi, che contrasta con la percezione statica che dei complessi documentari ha il senso comune. Gli archivi sono cose vive che, come le cose vive, evolvono, si trasformano, non si lasciano facilmente ingabbiare. E gli archivisti non possono mai dimenticarsi di questo. Poi, certo, elementi di staticità esistono ma anche per i complessi documentari apparentemente più pacificati – e penso ad archivi storici consolidati e strutturati – nel tempo possono ad esempio cambiare le modalità di rappresentazione e comunicazione e, allora, le sollecitazioni al cambiamento si manifestano nuovamente. Le trasformazioni (ma meglio sarebbe parlare di evoluzioni) di archivi e archivistica sono ormai un fenomeno di lunga durata o meglio, quotidiano. Difficile fotografare questa disciplina senza ricavare spesso immagini sfocate, in fuga. Eppure l’intrinseca vocazione tassonomica che accompagna gli archivisti ci impone di scattare in qualche modo queste fotografie all’archivistica che cambia insieme ai suoi oggetti di studio e ai temi che ne contraddistinguono il sostrato epistemologico.

L’obiettivo di questo contributo è di dimostrare come nell’attuale congiuntura evolutiva l’archivistica, così come il concetto e la fenomenologia di archivio[2], e le prassi ad esso collegate tendano a moltiplicarsi e assumere nuovi significati e valenze. Allo stesso modo la disciplina nel suo complesso conosce una rinnovata articolazione, e non solo per effetto della ormai consolidata diffusione di tecnologie dell’informazione in ogni settore dell’universo documentario. Si tratterà quindi di analizzare la multidimensionalità dell’archivistica e degli archivi e di valutare come siano venute modificandosi o si stiano ridefinendo vere e proprie roccaforti concettuali e metodologiche quali soprattutto il processo di descrizione archivistica, alle prese con l’evoluzione degli standard (con particolare riferimento alla gestazione di RIC_CM[3] (Records in Context. A Conceptual Model for Archival Description, il nuovo “superstandard” di descrizione del Consiglio Internazionale degli Archivi), e con la diacronicità che il digitale impone a questa pratica antica del mestiere di archivista. Nel far questo si affronteranno tematiche legate all’apparente antinomia analogico-digitale, ma si cercherà anche di approfondire la multidimensionalità necessaria della disciplina, legata a fenomeni che ancora prima che tecnici sono di ordine politico, sociale e culturale. Archivistica e archivi sono, infatti, inevitabili cartine di tornasole delle modifiche che attraversano la società stessa, società a sua volta multidimensionale e delocalizzata come i sistemi di fonti che genera e che la sostengono. Insomma una disciplina che attraversa con modalità diverse ogni settore della vita pubblica e privata, sia come strumento di costruzione dell’efficienza e della trasparenza sia come dotta precettistica per la costruzione di memorie. Identità, trasparenza, democrazia, costruzione e comunicazione delle memorie sono le parole che accompagnano una disciplina che diventa sempre più “pubblica”, incisiva e aperta alle esigenze di una molteplicità di tipologie di utenti. Sulla scia di altri paradigmi[4] al momento molto in voga, si potrebbe parlare di archivistica pubblica o public archival science, sottolineando in questa definizione la natura aperta e propositiva di un nuovo approccio all’archivistica. Questa archivistica pubblica si alimenta di valori, metodi e prassi che già appartengono al suo codice genetico e deontologico. Nel confronto con fenomenologie documentarie sempre più “scivolose” e con una società sempre più esigente nei confronti degli archivi tende però ad aprirsi e a fare della sua trasparenza e capacità di raccontare i valori archivistici una priorità. Si può e si deve, insomma, andare ben oltre la classificazione, lo scarto o il riordino, attività essenziali ma da considerare propedeutiche al raggiungimento dei veri obiettivi che sono quelli di diffusione a ogni livello del valore degli archivi. Valori non genericamente e romanticamente intesi come ricostruzione del passato, ma valori “pubblici” in ogni attimo del ciclo vitale, non disgiunti dalla capacità e dal desiderio di incidere, anche usando il passato, sul presente. Questa capacità, ma verrebbe da dire questa volontà, di contribuire alla costruzione del presente guardando al tempo stesso al passato e al futuro è il tratto distintivo di quell’attivismo archivistico di cui tanto nel nostro paese si sente la mancanza[5]. L’archivistica pubblica, infatti, si nutre da un lato di attivismo inteso come capacità di estrapolare dagli archivi pulsioni e contenuti in grado di supportare la progettazione della società e, dall’altro della capacità di tirar fuori dalle descrizioni, dagli strumenti e dagli archivi non solo la storia ma tante possibili storie[6].

L’archivistica e l’archivistica pubblica tra mediazione e costruzione dell’identità[7]

Per quanto dicevamo sopra, a questo punto parlando di archivistica si impone una distinzione tra l’archivistica che potremmo definire “tecnica”, intesa come insieme di valori, metodi e prassi volti a tutelare e valorizzare i fondi archivistici, e un’archivistica “pubblica” che, muovendo dai risultati conseguiti da quella tecnica, si apra alla società con un profilo particolarmente dinamico. All’interno di questo modello gli archivisti vedono enfatizzato il loro ruolo di mediazione e anzi vanno al di là della mediazione. Il potere degli archivi[8] in questa lettura va oltre gli archivi stessi, diventa capacità di influenzare la società, di inoculare nella società i valori archivistici di cultura istituzionale, trasparenza, memoria. L’archivista da mediatore diventa attivista, acquisendo, potremmo dire, un nuovo stato d’animo e muovendosi su due fronti, quello dell’archivio corrente, con le sue implicazioni nel governo delle comunità e della salvaguardia di diritti e democrazia, e quello dell’archivio storico inteso non più solo come “semplice” fonte, ma come scaturigine di storie che arrivando dal passato siano capaci di impressionare e coinvolgere il presente. L’archivistica pubblica e l’attivismo archivistico sono però figli di quella che noi, con tutte le cautele del caso, abbiamo definito archivistica tecnica, la disciplina che per decenni, se non per secoli, ha esercitato un ruolo decisivo nella salvaguardia e nella comunicazione degli archivi.

Nella congiuntura attuale è piuttosto scontato affermare che questa archivistica sia una disciplina multidimensionale. La multidimensionalità, potremmo dire, è nella natura stessa delle cose archivistiche e del mondo da cui provengono e in cui si calano. Se ci si affaccia alla realtà degli archivi ci si accorge di quanto ormai essa sia frammentata, articolata, sfuggente. Le acque tutto sommato quiete di una disciplina che si specchiava con accanimento filologico su sedimentazioni documentarie consolidate e (sia pure con qualche fatica) addomesticabili, sono diventate un lago, anzi, un mare in tempesta. La cesura più profonda è segnata senza dubbio dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione, per quanto nel regime di ibridazione in cui viviamo sia difficile distinguere con nettezza il prima e il dopo. Ma da sola la interpunzione digitale non basta a spiegare la multidimensionalità. Se è vero che essa, sul versante degli archivi correnti incoraggia meccanismi di produzione documentaria articolati e sfuggenti e al tempo stesso contribuisce a ridefinire il panorama delle fonti storiche (non senza più di un rischio di obnubilamento documentario), è anche vero che l’archivistica è attraversata da altri epifenomeni, che impattano soprattutto sulle strategie descrittive e comunicative e impongono un ripensamento di una buona parte dell’impianto metodologico.

L’archivistica, alla luce di queste considerazioni, risulta evidentemente sospesa nel tempo, gravida di retaggi passati, scossa da sollecitazioni presenti e protesa verso nuove dimensioni e nuovi approcci. Ieri, oggi, domani. Ma cosa è oggi l’archivistica? L’archivistica è innanzitutto quella che è sempre stata. Mentre cantano e incantano le sirene digitali non bisogna dimenticare che esistono ancora – e in misura preponderante – archivi storici analogici ed è vivissima l’esigenza di governarli mediante le pratiche consuete. Molti, troppi, fondi sono in attesa di essere descritti, ordinati e dotati di adeguati strumenti di ricerca, poco importa se analogici o digitali anche se, ovviamente, la naturale evoluzione degli strumenti guarda a soluzioni in grande maggioranza digitali, con tutto quello che ne può conseguire sulla rimodulazione delle modalità di restituzione degli strumenti stessi. La disciplina e i suoi adepti devono quindi fare i conti innanzitutto con l’incontestabile valore culturale consegnato dal passato remoto e recente. E’ auspicabile che ci si confronti con i nostri importanti archivi storici e con le relative prassi di gestione e con il bisogno di governare il presente e il futuro insieme alla tecnologia che li sostanzia, generando informazione destinata a farsi memoria documentaria stabilizzata. Questa dimensione conserva tutta la sua importanza e non deve messere messa in ombra dal “futuro che avanza”. Certo, presente e futuro incombono anche sulla dimensione più “tradizionale” (senza nessuna sfumatura negativa in questo termine) dell’archivistica, e impongono alla disciplina di fare i conti con fenomeni nuovi. Su tutti, come avremo modo di verificare più avanti, il palingenetico dibattito intorno agli standard e la marea montante della digitalizzazione.

L’archivistica, come sappiamo bene, si occupa, tautologicamente, degli archivi e la fenomenologia documentaria, in questa congiuntura che si avvia a diventare struttura, va però ben oltre le sedimentazioni storiche consolidate. La rivoluzione dei meccanismi di produzione, sempre meno monolitici e sempre più radiali, contribuisce a sfilacciare e a rendere fortemente articolato il rapporto tra produttore e sedimentazioni documentarie. La delocalizzazione, figlia dei documenti digitali, contribuisce a sua volta a una forma di parcellizzazione, distribuendo i documenti in realtà fisiche distinte e diverse tra loro, anche rispetto alle modalità di trattamento. L’archivio informatico impone nuovi comportamenti, nuove competenze e nuove strategie per garantire la sedimentazione, la gestione, l’uso e la conservazione di lungo periodo dei documenti. Per rispondere a queste sollecitazioni l’archivistica deve quantomeno sdoppiarsi, perché da sola non basta più a sé stessa. Essa deve appunto divenire plurale, per far fronte alla molteplicità delle epifanie documentarie del presente e alle emergenze per il futuro che esse innescano. Nel momento in cui si ribadisce questo concetto, ormai assodato, che sta semplicemente nella realtà delle cose, si mette anche a fuoco l’esigenza di fare dell’archivistica una disciplina a 360°, che sappia guardarsi sia alle spalle che di fronte[9]. La scienza che studia gli archivi ha sempre avuto capacità e, potremmo dire, urgenze retrospettive per allineare il passato al presente. Nella congiuntura attuale deve dotarsi di strumenti e immaginazione che le consentano di incatenare o quantomeno agganciare il presente al futuro. In questo snodo che mette la disciplina all’incrocio dei venti restano affidabili paracadute i solidi valori fondanti su cui essa poggia, insieme al codice deontologico che richiama al dovere della tutela, della conservazione e della comunicazione, a prescindere dalla forma e dal supporto dei documenti. Se volessimo sintetizzare il tema dei valori fondanti in due soli termini, sia pure di grande “capienza”, cioè capaci di contenere una molteplicità di spunti e attività, potremmo ricorrere a due parole: efficienza e conservazione.

L’archivistica deve garantire innanzitutto la formazione, gestione e utilizzazione dei complessi documentari in quanto risorse efficaci per i soggetti produttori e i loro utenti. L’efficienza come specchio della trasparenza e del vigore amministrativo, primo valore fondante degli archivi. A questo livello si incrocia anche il tema dell’uso politico, sociale e identitario degli archivi stessi. Gli archivi non sono semplicemente informazione, come sappiamo bene. Essi hanno un ruolo che va al di là dell’informazione, quando li si consideri appunto nella loro dimensione politica. Le questioni legate all’accesso e all’uso dell’informazione vanno ben oltre la dimensione archivistica, in direzione della costruzione della consapevolezza di una società. Una società senza archivi efficienti nel presente e nel passato è una società priva di riferimenti, manipolabile, soprattutto in un mondo che si annuncia digitale. Identità è sapere da dove si viene per poter pensare a dove si vuole andare e gli archivi sono strumenti ineludibili per colmare quella che è la carenza più evidente del nostro paese: l’assenza di una progettualità identitaria. Bisogna insomma pensare a un ruolo degli archivi e dell’archivistica che vada oltre la dimensione tecnica e culturale e ne faccia protagonisti della costruzione di giustizia sociale[10]. Descrivere, ordinare, inventariare resta assolutamente necessario ma i prodotti di questo lavoro devono anche essere messi al servizio di logiche capaci appunto di attraversare la società ribadendo il potere della memoria.

Su un altro versante, anzi, accanto all’efficienza, sta il concetto/valore di conservazione. Di conservazione di lungo periodo, lo diciamo subito perché la conservazione –con buona pace della incerta normativa vigente- o è di lungo periodo o non è. Dentro alla parola conservazione, e in particolare alla conservazione digitale, si annida una molteplicità di opportunità e problematiche.

La conservazione si basa innanzitutto su un modello conservativo[11] che consenta un accesso il più ampio possibile e garantisca la sopravvivenza fisica e logica dei complessi documentari[12]. Il nostro sistema conservativo invece è evidentemente in crisi, incardinato come è a un modello vecchio di quasi centocinquanta anni. La rete degli archivi di Stato e il policentrismo (che diventa talvolta puro campanilismo) non ce la fanno più. Vacillano sotto i colpi del digitale e vengono sorpassati a destra da nuovi approcci. Nascono sul territorio i poli della conservazione digitale, i cosiddetti soggetti accreditati. L’idea di affidare a soggetti terzi[13], pubblici o privati, la conservazione in conto terzi non è peregrina e, anzi, sembra l’unica praticabile. Il punto è tentare di capire che tipo di conservazione questi soggetti garantiscano in termini quantitativi e qualitativi[14]. La conservazione, come ribadiremo più avanti, è contestualizzazione dinamica dei complessi documentari basata su un raffinato processo di descrizione archivistica. I cosiddetti soggetti accreditati sono in grado di garantire questo tipo di conservazione e tutte le implicazioni di mediazione a essa connesse? In altre parole il controllo archivistico (inteso in senso ampio e come ricerca di una dimensione conservativa socialmente rilevante) esiste? È in grado di garantirlo l’AGID (Agenzia per l’Italia Digitale)? Forse, anzi, quasi sicuramente, no. Sarebbe allora necessario, prima di parlare di conservazione, prendere atto del presente e del futuro e rivedere gli assetti complessivi della gestione amministrativa degli archivi e quindi del modello conservativo. Cominciando dal chiarire l’equivoco che potrebbero essere i tradizionali istituti archivistici a farsi carico dell’eredità digitale. Questi, razionalizzati nella loro distribuzione, dovrebbero invece avviarsi a divenire dinamici “musei” della memoria curando e illustrando gli ingenti patrimoni documentari in loro possesso e lasciando ad altri – adeguatamente vigilati – il compito di costruire la memoria futura. La ridefinizione inevitabile degli assetti della conservazione del resto non è un semplice problema di stoccaggio o di tutela fisica ma coinvolge l’intero processo di conservazione, fruizione e valorizzazione ed è perciò una criticità di ordine sociale prima che archivistico. Una memoria da costruire e non semplicemente da custodire, con tutte le conseguenze sul piano della percezione degli archivi, della sensibilità archivistica e dell’approccio psicologico. Come ha scritto Linda Giuva:

«Si tratta di sperimentare forme organizzative in grado di riarmonizzare ai bisogni sociali la missione svolta dalle istituzioni conservative; di definire una legittimazione sociale degli archivi che sostenga e giustifichi agli occhi della collettività i costi della conservazione della memoria archivistica contemporanea[15]»

C’è bisogno, allora, di costruire politicamente una nuova percezione degli archivi, svincolandoli da un modello che è, nei fatti, sofferente. Sarebbe quindi auspicabile che agli archivi nella loro interezza venisse riconosciuta un’ampia autonomia amministrativa, organizzativa e gestionale. Condizioni queste che potrebbero essere garantite da una agenzia che tuteli tutte le loro peculiarità e che sia in condizione di governare anche la modernità, interfacciandosi con gli altri soggetti che in questa fase gestiscono la transizione infinita al digitale[16].

Se questa è la dimensione materiale o, meglio, organizzativa della conservazione non si può tralasciare quella culturale. La conservazione è un processo che costruisce memoria e memoria critica, cioè fatta di contesti a supporto dei contenuti. La conservazione è un’attività trasversale che taglia il tempo e metabolizza “informazione” per restituire testimonianze di civiltà. Si conserva per consultare, in prima istanza per garantire efficienza all’azione giuridica e poi, per così dire, per dare profondità storica ai fatti e alle azioni. Da sempre al processo conservativo si accompagna una intensa pratica selettiva e da sempre, inevitabilmente, la conservazione è frutto di scelte più o meno consapevoli. Come sappiamo non esiste memoria oggettiva né esistono fonti del tutto affidabili. Solo l’attenta ricostruzione dei contesti garantisce una relativa affidabilità agli archivi che assumono il loro peso culturale solo se valutati all’interno di quella vera e propria rete documentaria, fatta di verifiche e rimandi, che potremmo definire sistema archivistico complessivo. Esistono intrecci, incastri, rinvii che (ri)qualificano il dato nudo e crudo. Se poi prendiamo in considerazione la fattispecie digitale, la dimensione culturale della conservazione si complica. Intanto perché ne rimangono tutto sommato incerte le modalità sia dal punto di vista organizzativo che da quello applicativo. Qui non ci preoccuperemo del “come” si conserva[17] se non per ribadire quanto peculiare sia la conservazione digitale e come questa attività debba essere governata con tutta la preveggenza e la cautela del caso. La conservazione digitale però non è un mistero iniziatico: è tecnicamente praticabile a patto che vi si dedichi la dovuta attenzione, la si interpreti correttamente e la si finanzi adeguatamente. Potremmo dire che questo di tipo di conservazione, quando voglia essere efficace, è un processo tecnologico evoluto, governato da altrettanto evolute pratiche archivistiche. E qui viene a galla il tema per certi versi trito e per altri irrisolto della interdisciplinarità, della capacità che informatici e archivisti devono avere di collaborare sul terreno della costruzione della memoria digitale. Gli assetti attuali sembrano ancora sbilanciati verso l’approccio tecnologico ma non è nemmeno questo il problema. Forse questo stato di cose ha una matrice più semplicemente giuridica, culturale ed epistemologica. Giuridica perché la normativa vigente non è a tutt’oggi garanzia di una conservazione digitale archivisticamente equilibrata. Culturale perché il modello di società all’interno del quale ci muoviamo tende a enfatizzare il presente a discapito del valore di memoria in quanto tracciante dei processi evolutivi. Epistemologica perché solo in parte la disciplina incalza da vicino queste problematiche, malgrado il proliferare di studi e progetti: il dilemma di fondo, storia o futuro, resta ancora irrisolto, come del resto dimostrano percorsi formativi quanto meno balbettanti.

Il tema della formazione, dei profili professionali e delle specializzazioni rimanda però immediatamente alla pluralità della disciplina archivistica e, soprattutto, alla multidimensionalità degli archivi contemporanei.

 Gli archivi del presente e l’identità digitale[18]

Il problema di ordine generale che più di ogni altro influenza la visibilità e la piena diffusione dei valori archivistici è quello del difficile rapporto che gli archivi nel loro complesso hanno con l’opinione pubblica. Gli archivi sono stati e sono lontani dai cittadini e quando vengono avvicinati non mostrano sempre il loro lato migliore, avvolti talvolta nelle spire di un auto-referenzialismo duro a morire. D’altra parte, l’approccio del senso comune agli archivi è certo superficiale e ancora ammantato di pre/giudizio. La battaglia più importante da combattere è quindi quella della comunicazione, fermo restando che la comunicazione si nutre di contenuti e non di generici proclami sull’importanza degli archivi.

Ma cosa e come raccontano gli archivisti all’opinione pubblica degli archivi? Sanno farne comprendere fino in fondo il valore o forse a volte indugiano su temi inevitabilmente distanti dal pubblico sentire? E soprattutto quali archivi vogliamo raccontare? Certamente tutti gli archivi senza discriminazione di data e formato. Questo assioma va letto però in controluce o, meglio, alla luce di una congiuntura archivisticamente (ma verrebbe da dire socialmente) molto particolare come quella attuale. Anche gli archivi subiscono gli effetti della grande depressione che stiamo attraversando ma sarebbe interessante parlare, più che di crisi degli archivi, di archivi della crisi, cioè di testimonianze pulsanti di quello che sta accadendo a sostegno di possibili soluzioni al problema di ordine generale.

Come dicevamo sopra parlando di archivistica, archivistica pubblica e identità, pensare agli archivi oggi più che mai significa anche avere la capacità di scinderli dalla dimensione esclusivamente storica. Proprio per difendere il valore di memoria storica che gli archivi nella loro complessità rappresentano occorre individuare strategie che endano, per così dire, meno desueti e più spendibili presso l’opinione pubblica. Il dilemma che da sempre attraversa e in qualche misura spacca il mondo archivistico è quello su quale sia la loro natura preminente. Testimonianze del diritto e reliquie del passato? Teoricamente nessuno ha mai misconosciuto il valore “integrale” dei complessi documentari indipendentemente dalla fase del ciclo vitale che attraversano ma, nei fatti, le cose sono andate spesso diversamente. Certamente schiacciare la dimensione archivistica nella prospettiva dei beni culturali non rende ragione alla ricchezza e, soprattutto, all’importanza strategica degli archivi. Gli archivi devono essere percepiti in prima battuta come strumenti di democrazia, efficienza e certificazione del diritto. Gli archivi non sono solo “utili” reliquie del passato, sono strumenti di governo. Per questo motivo collocarli in una dimensione esclusivamente “bene-culturalista” li indebolisce. Occorre insomma conoscere e far riconoscere il potere degli archivi su qualsiasi versante lo si voglia declinare. Solo la consapevolezza politica della centralità dei complessi documentari garantirà loro un futuro. Mantenere gli attuali assetti intervenendo con tagli lineari che non risolvono la questione strutturale significa negare un’emergenza e un’emergenza che non riguarda solo un ridotto numero di ricercatori ma tutto il Paese. Gli archivi, quindi, non solo come residuo di attività passate ma anche come strumento di efficienza. Gli archivi che siano importanti davvero e vengano adeguatamente governati nel rispetto di tutte le loro caleidoscopiche proprietà.

Ma, se questa è la dimensione politica e culturale cui ricondurre la fenomenologia archivistica contemporanea, non si può dimenticare quella più squisitamente tecnica, legata alle modalità di produzione, sedimentazione e conservazione di quei veri e propri “multifondo” che oggi sono gli archivi. Anche la parola archivio non basta più a contenere gli oggetti che vorrebbe descrivere.  Quello che si profila è un universo documentario dove le ICT tendono a dettare le regole e dove si affievoliscono e si appiattiscono le istanze culturali. La crisi degli archivi passa anche da qui, dall’incapacità di governare le istanze che le tecnologie, in maniera pervasiva, alimentano. Sembra però limitativo scandire il mondo archivistico sulla base del supporto quando le questioni di fondo a ben guardare sono altre, a cominciare, molto banalmente, dalla percezione o, meglio, dalle percezioni che degli archivi stessi si hanno o si possono avere. L’archivio, su questo si può concordare, è uno strumento. Ma uno strumento per fare che cosa? Per amministrare, per governare, per garantire sviluppo economico e per garantire e ricostruire memoria. Ma in una società caratterizzata da una marcata deriva informativa o, se vogliamo, dalla globalizzazione, l’archivio, sia pure nelle sue inafferrabili e ineffabili epifanie, è in primo luogo strumento di possibile e necessaria identità. Di una identità che vada oltre all’inno nazionale cantato negli stadi e sia capacità di sviluppare coerenti progettualità politiche e culturali, capacità di immaginare il futuro, invece di vampirizzare il presente. Come ha scritto Eric Ketelaar:

«By cultivating archives through successive activations, people and communities define their identities. In these activations, the meanings of archives are constructed and reconstructed. Archives are not a static artifact imbued with the record creator’s voice alone, but a dynamic process involving an infinite number of stakeholders over time and space. Thus, archives are never closed, but open into the future. Furthermore, digital archives are always in a state of becoming, being created and recreated by technologies of migration and reconstruction.[19]»

Un processo identitario dinamico, insomma, costruito sull’attenzione rivolta a qualsiasi tipo di archivio e che muova dagli archivi verso la generazione di una coscienza pubblica fatta di memoria consapevole e non di progressive sottrazioni che allontanano eventi e sensazioni nel tempo e nello spazio, alimentando una società mutila, fondata esclusivamente sul presente[20]. L’attenzione cui si è fatto cenno si sostanzia della corretta gestione delle diverse tipologie documentarie, nella cultura dell’archivio che è innanzitutto responsabilità politica e sociale. È a questo livello che l’archivista pubblico, di cui abbiamo abbozzato sopra i tratti distintivi, può agire sugli archivi per estrarre carburante prezioso per alimentare il motore di una società che sembra smarrita nel mare delle informazioni che la sommerge. “Pensare archivistico”, esercitare spirito critico, e insegnare soprattutto a esplicitarlo nel raccontare, sono i primi doveri dell’archivista pubblico. Gli archivi sono in questo senso delle armi potenti, molto potenti. La loro corretta gestione insieme a un uso più “disinvolto“ dei contenuti informativi sembra – senza esagerare – l’unica via per riportare a una identità che sia politica, sociale, culturale e anche economica e che vada oltre fenomeni identitari fatti di social, televisioni e palloni. Gli archivi – e lo dico con enfasi assolutamente voluta – come cuore pulsante di una nazione civile. Ma perché questo avvenga occorre che gli archivi stessi –attualmente più simili a cavalli imbizzarriti che a depositi polverosi – vengano dominati nella loro poliedricità contemporanea.

Quella che si chiama cultura della gestione documentaria è prima di tutto cultura istituzionale e anche gli esuberanti archivi contemporanei ne sono l’inesauribile sorgente. Anche se il fenomeno digitale, nella sua complessità, sembra contribuire a dissolvere gli archivi nella loro interezza. O, meglio, ne ridisegna la mappa, ne ridefinisce gli assetti imponendo nuovi comportamenti e robusti adeguamenti degli statuti disciplinari. Esistono archivi correnti di carta, digitali, ibridi, sul web[21] o disseminati e fortemente delocalizzati su diverse piattaforme e applicativi, e archivi storici analogici, solidamente ancorati al loro supporto ma anche digitalizzati in parte o integralmente. E poi ci sono descrizioni, rappresentazioni vecchie e nuove che raccontano questi stessi archivi, li accompagnano, tentano di spiegarli. Un crescendo ansiogeno che inseguiamo come possiamo, quasi tentando di stanare il “nemico” informativo nel disperato tentativo di reductio ad unum, in cerca di una salvifica benedizione del vincolo. Da dove cominciare allora a guardare all’archivio, al concetto di archivio, nella congiuntura attuale? Anche il termine archivio, come archivistica, è plurale. Vi si affollano dentro una serie di evenienze, di concezioni, di percezioni.

La pluralità digitale fa degli archivi del presente entità multiple, all’interno delle quali è difficile riconoscere il vincolo unificatore. Il vincolo si sfilaccia, si contorce e si moltiplica nel tentativo di inseguire fenomenologie archivistiche sempre più destabilizzate. Il monolite testuale che l’archivio era è diventato una somma di fattori che possono anche contravvenire agli assiomi matematici, producendo risultati non sempre uguali. L’archivio che diventa un flusso di dati, tende a definire la propria fisionomia in ragione dei modi e delle finalità di uso e di accesso e per effetto delle tipologie documentarie recuperate e consultate, che disegnano un’immagine dinamica di fondi archivistici che sono stati giustamente definiti ubiqui[22]. I documenti stessi sono talvolta fluidi montaggi informativi da sorgenti diverse. Ci troviamo di fronte, insomma, a un archivio che riemerge al momento della consultazione invece di stabilizzarsi concretamente con processi di sedimentazione statici. L’archivio si manifesta come aggregazione di dati[23] che vengono a loro volta aggregati muovendo da piattaforme diverse. Inseguire il vincolo nelle pieghe dell’ubiquità digitale diventa molto complesso, si dovrebbe forse parlare di vincoli che concorrono a identificare l’archivio. Lo scenario è fortemente articolato, soprattutto quando si guardi al tema portante della conservazione. La conservazione di archivi digitali (quando non ibridi) si scontra, aldilà della dimensione squisitamente tecnica, con il problema del tentativo di congelare e ricomporre tutta questa liquidità.

Di questo magma, infatti, si deve prendere atto, bene o male. Forse è il caso di ammettere che razionalizzare fisicamente non si può, non si può più tornare a una concezione univoca dell’archivio in quanto sedimentazione fisica. L’aggregazione documentaria digitale, se si vuole per quanto possibile salvaguardare il concetto di integrità dell’archivio, è essenzialmente logica. Molto, è sicuro, andrà perso dentro i flutti di questo ibrido impetuoso torrente informativo. Salvare il salvabile però si può. L’archivio contemporaneo, quale che sia la sua finalità, va inseguito, ricomposto, compreso nella sua natura, se necessario riformulato nei modi e nei tempi. Questo significa innanzitutto prendere atto che, come ormai sappiamo, la partita più delicata si gioca nel presente per il futuro. Il che non significa certo, come dicevamo sopra, rinnegare l’importanza dell’eredità storica che il passato (sia pure filtrandola e lavorandoci sopra in tanti modi) ci ha consegnato. Ma quella è un’altra cosa. Tutta un’altra cosa.

Fare i conti con il passato (con gli strumenti del presente)

C’era una volta l’archivio “pacifico” complesso di documenti amorosamente tenuti insieme dall’idea stessa del vincolo, stabile e cogente dimostrazione della forte strutturazione di quei complessi documentari. Ora quegli archivi esistono ancora ma vivono, quando non vivacchiano, nelle pieghe degli scaffali, preziosi ma quasi inevitabilmente “distanti”. Sono i nostri archivi storici, oggetto del desiderio della ricerca di ogni tipo ma allo stesso tempo vilipeso retaggio di memoria. Quanto alla sedimentazione sono archivi d’altri tempi con tutto il loro fascino retrò ma quanto alla immanenza nel quotidiano spargono nell’attualità una memoria capace di nutrire il presente. Chi con fatica li accudisce e li rende fruibili sembra però non riuscire a vincere del tutto l’incantesimo politico che da sempre chiude gli archivi in castelli spesso assai poco incantati. Dietro a questi pozzi di memoria si celano decenni se non secoli di studio e un’imponente produzione bibliografica. Un fenomeno che anche a un esame sommario risulta di dimensioni impressionanti ma che è sorprendentemente silenzioso per i più: l’opinione pubblica ignora tutto ciò. Ignora il lavoro e “lo studio matto e disperatissimo” che ha consentito a questi benefici mammut di sopravvivere al tempo[24]. I nostri archivi storici sono potenziali, imponenti musei di una memoria condivisa, viva e pulsante. Ma hanno bisogno di cure. Le medicine consuete, per quanto utili, non bastano più e comunque non sempre vengono somministrate. Oltretutto di descrizione, riordino, inventariazione si può anche morire, se non si accompagnano a questi farmaci forti antidoti comunicativi.  Gli archivi storici, insomma, sono chiamati ad uscire da sé e a non fermarsi ai tradizionali processi descrittivi, approfittando soprattutto delle innegabili opportunità tecnologiche. Dopo la fase incerta degli esordi, esordi che risalgono ormai a qualche decennio fa, anche negli archivi storici le tecnologie dell’informazione si sono per così dire impadronite della dimensione archivistica o ne hanno, quanto meno, ridefiniti i contorni. Dentro la apparentemente semplice distinzione tra archivi analogici e archivi digitali s’insinuano problematiche complesse che mi pare impongano allo stato attuale più di una riflessione, nel momento in cui ci accorgiamo dei profondi mutamenti “antropologici” introdotti dalle tecnologie dell’informazione.

In ambito archivistico la lunga marcia verso il digitale si è mossa (in maniera per il vero scomposta, almeno nel caso italiano) dal versante descrittivo: sono state cioè rese digitali innanzitutto le “rappresentazioni” degli archivi, sia sotto forma di acquisizione di strumenti di ricerca pregressi che attraverso la costruzione di banche dati. Il fenomeno si è dilatato e per certi versi assestato con la nascita dei grandi sistemi informativi e della galassia di sistemi descrittivi che intorno ad essi si è formata. Il processo di digitalizzazione della descrizione è stato il primo momento di concreto confronto tra archivi e tecnologie dell’informazione. Questo processo, anche sulla scorta della lezione degli standard e del relativo dibattito, ha portato nel tempo alla definizione di sistemi descrittivi raffinati anche se talvolta autoreferenziali ma, per così dire, non ha intaccato la natura degli archivi. Le rappresentazioni digitali hanno anzi contribuito in buona misura a stanare i fondi archivistici dai depositi e a renderli più vicini agli utenti. Ma il presente e il futuro portano con sé un nuovo approccio o, forse, nuove esigenze. Negli archivi storici il crescente ricorso alla digitalizzazione di fonti primarie, non sempre sorretto da criteri selettivi adeguati, sta a dimostrarlo. Forse, però, è arrivato il momento di fermarsi a riflettere in maniera più articolata sul rapporto tra il patrimonio archivistico consolidato (da accudire come non mai) e le sue riproduzioni digitali che spesso ridisegnano, se non tradiscono, la memoria. L’anelito a trasferire sul web le fonti primarie attraversa ogni tipologia di archivio e crea al tempo stesso opportunità e criticità[25].  Le opportunità, con tutta evidenza, sono quelle di un accesso facilitato a interi sistemi di fonti. Le criticità, oltre che nell’esigenza di salvaguardare la conservazione degli oggetti digitali che si vengono creando, stanno tutte nei criteri di selezione. La digitalizzazione parcellizzata cui spesso si assiste può, infatti, alterare la fisionomia e l’integrità originaria dei fondi archivistici creando archivi inventati, “neo archivi” sul web – intesi come aggregazioni di documenti digitalizzati spesso senza adeguati ed espliciti criteri di selezione – che possono risultare sostanzialmente decontestualizzati e lasciare sullo sfondo i complessi documentari originali. È perciò indispensabile agganciare ogni forma di digitalizzazione a strumenti di corredo adeguati e fornire tutte le indicazioni di contesto atte evitare che la copia digitale decontestualizzata si sganci definitivamente dall’originale. Il digitale, infatti, non sostituirà mai, nel caso di archivi storici ormai sedimentati, la ricchezza del panorama cartaceo, per semplici considerazioni quantitative. Quindi si guarda con grande interesse alla digitalizzazione ma, al tempo stesso, si auspica un uso “archivistico” dello strumento, per quanto ciò possa sembrare complicato in un momento di accanimento digitale sulle fonti, a prescindere dalla morfologia della loro sedimentazione analogica.

Ultimo, preoccupante esempio in questo senso è quello della nascente digital library italiana, annunciata con enfasi del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo e così (altrettanto enfaticamente) descritto sul sito dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (istituto non archivistico, si badi bene):

Un acquedotto digitale, dunque, dove riunire le diverse fonti che alimentano il web, attraverso cui qualsiasi utente (sia esso privato, istituzionale o impresa) possa fruire e riusare dati e risorse digitali del patrimonio culturale per qualsiasi scopo (accademico, scientifico, commerciale, turistico)[26]. La digitalizzazione riguarderà, a quanto si apprende, 101 archivi e 46 biblioteche. Non si capisce bene cosa si intenda con digitalizzazione. Digitalizzare i fondi archivistici di 101 archivi sembra un’impresa troppo ambiziosa oltre che di dubbia utilità. O forse (e sarebbe attività nobilissima) si intende ridurre a un sistema digitale l’insieme degli strumenti per la ricerca? Il rischio è quello di produrre l’ennesimo patchwork di oggetti digitali possibilmente estrapolati dai contesti, proseguendo nella immaginifica politica dei proclami che caratterizza il MIBACT. L’idea dell’acquedotto che convoglia i rivoli sembra poi sovrapporsi al Sistema Archivistico Nazionale (SAN)[27] e alimentare ulteriormente quella perversa catena di sistemi cui si alludeva prima. Al fondo rimangono le forti carenze di politiche culturali serie e di progettazione del sistema di risorse digitali archivistiche che da sempre penalizzano l’archivistica digitale in Italia. La qualità progettuale dei prodotti è in alcuni casi innegabile e di gran lunga vincente nel confronto internazionale, ma la organicità dell’offerta e la capacità di comunicazione lasciano ampiamente a desiderare. Anche in questo caso spetterebbe agli archivisti tentare di governare le opportunità tecnologiche e volgerle da potenziali minacce in opportunità. O, quanto meno, come in parte sta avvenendo potremmo dire in queste ore[28], gli archivisti dovrebbero ribellarsi di fronte a vere e proprie provocazioni digitali che impoveriscono il digitale stesso e le sue potenzialità. Il problema in questo senso è innanzitutto politico. Sono infatti le zoppie delle politiche culturali sottese allo sviluppo dell’insieme di risorse digitali per gli archivi (ricco ma confuso, e non sanato dal SAN) a chiamare in causa la disciplina. Il sistema archivistico digitale nel caso italiano è, infatti, costellato di risorse ma sostanzialmente disarticolato. La bandiera della panacea digitalizzatrice garrisce nei proclami ma di rado si parla di progettazione, selezione, esigenza di descrizione e riordino. Di rado, cioè, la politica si affaccia davvero negli archivi storici, rinunciando, così facendo, a esercitare il suo compito di pubblico garante della memoria e riducendo la questione archivistica a una dimensione tecnica che, per quanto importante, ne è solo una componente. Il cuore della questione archivistica sta oggi invece nell’esigenza di un governo per la memoria.

La descrizione

«Si chiamano, dunque, false alcune cose in questo senso, cioè o per il fatto che non esistono o per il fatto che la rappresentazione prodotta da esse non corrisponde a una cosa reale»[29].  Cioè: che rapporto c’è, indipendentemente dai mezzi, tra descrizione e realtà, tra descrizione e passato, tra descrizione e presente, tra descrizione e futuro? L’archivistica è sempre stata rappresentazione[30]. Nel tempo si sono modificati gli obiettivi e le modalità della rappresentazione ma è restato immutato l’anelito a raccontare gli archivi per renderne accessibili i contenuti. Il problema di fondo, come è noto, è quello del rapporto assai poco equilibrato tra potenziale informativo e risultati reali della ricerca. Negli archivi insomma si celano milioni di informazioni che nessuna approssimazione descrittiva riesce a stanare. Il metodo storico stesso sembra in fondo nascere da questo squilibrio, dall’ansia di descrivere in qualche modo un patrimonio documentario immane al quale non bastano le materie ma servono le istituzioni, per dirla con Bonaini. Allo stesso modo è rappresentazione l’inventario bongiano[31] e poi l’introduzione di cencettiana memoria, introduzione che, come è altrettanto noto, per Cencetti[32] è l’essenza stessa dell’inventario. Ma anche le successive rivisitazioni del metodo storico[33] e il dibattito intorno alla Guida Generale si attestano su un modello di rappresentazione inevitabilmente “esterno”, attento alle strutture più che ai contenuti. Il concetto stesso che noi abbiamo di inventario è quello di una rappresentazione esterna, per quanto analitica essa sia. Nel mare magnum delle carte il recupero totale e automatico dell’informazione non è immaginabile.

Gli stessi standard di descrizione, a partire da ISAD(G), non possono superare questo limite e, anzi, fanno della struttura (cioè di una rappresentazione) lo scheletro di qualsiasi processo descrittivo. La multi-livellarità è un modello di rappresentazione attento alle strutture più che ai contenuti. Tutto questo è apparso per lungo tempo immutabile o, meglio, ineluttabile.  Al tempo stesso, però, da sempre ciò che gli utenti davvero cercano è l’informazione tangibile. Il processo di avvicinamento al dato consentito dagli approcci tradizionali si sta dimostrando sempre più insoddisfacente. Recentemente il verbo arboreo è stato infatti messo in dubbio[34] o, meglio, l’evoluzione tecnologica ha innescato un processo di rivalutazione delle strategie e delle finalità descrittive e comunicative sia in ambito analogico che, soprattutto, digitale.

Anche la descrizione archivistica, l’arma più potente che da sempre abbiamo per rappresentare gli archivi, l’impalcatura che sorregge l’intero castello, subisce infatti  le conseguenze dell’evoluzione psicologica, sociale, tecnologica e culturale di archivi e archivistica. La descrizione è al servizio degli archivi, dà voce agli archivi. Ma se gli archivi e gli obiettivi che essi consentono di raggiungere si modificano anche la descrizione si deve adeguare. Credo che, in attesa che se ne possano cogliere gli sviluppi applicativi, questo sia il senso “filosofico” del nuovo modello concettuale Record in Context. Da sempre il primo comandamento era non avrai altro albero al di fuori di me. Ora si profila l’eresia o quantomeno si discute sulla possibilità di affiancare a rappresentazioni gerarchiche rappresentazioni stellari, di rete. La struttura rimane, perché irrinunciabile, ma l’ingresso nel castello dell’informazione si diversifica, si aggancia ad altre reti di significati in cerca di una integrazione descrittiva multidimensionale che dia conto della liquidità degli archivi contemporanei e al tempo stesso faccia del dato archivistico l’ingrediente più importante di una pietanza complessa che si chiama rappresentazione di società (il plurale è d’obbligo).  Tecnicamente si va insomma incontro a una descrizione archivistica a un tempo multi-livellare e multidimensionale. Per capire bene cosa questo significhi bisognerà attendere la dimensione applicativa di RIC ma il modello concettuale fin qui rilasciato è senza dubbio un segnale chiaro, se non di un’inversione di rotta, almeno di un’apertura a nuovi possibili scenari. Per la prima volta gli standard descrittivi si agganciano alle tecnologie dell’informazione e prendono atto del forte e cogente potenziale comunicativo degli strumenti disponibili. Il bisogno di dilatare l’accesso ai contenuti archivistici, che su un altro versante trova riscontro in quegli archivi dinamici che sono gli open data, non nasce dagli archivi, viene dalle istanze della società, dai bisogni reali degli utenti. La descrizione al servizio degli utenti e non degli archivisti o di pochi eletti. Ed è una descrizione articolata, agile, capace di integrarsi[35], di agganciarsi a descrizioni scaturite da altri domini, da altri dati, in modo che partendo da un fondo archivistico si possa generare una rete informativa distribuita e flessibile, in grado di restituire una pluralità di punti di vista e articolati insiemi di dati. Questo modello di descrizione archivistica multidimensionale, insomma, pare più attento a tutti i possibili utenti e non interpreta gli archivi solo secondo modalità strutturate e sostanzialmente autoreferenziali, ma sembra in grado, a partire dal potenziale informativo del fondo, di generare una serie di reazioni a catena imprevedibili e affascinanti.

A prescindere da quelli che saranno i suoi sviluppi, la descrizione archivistica è una sorta di macchina fotografica che immortala le strutture dei fondi archivistici e ne analizza le componenti senza riuscire fino a questo momento a cogliere l’integrità del patrimonio informativo. Rappresentazione appunto, non restituzione dell’informazione.

Malgrado questo suo limite intrinseco e inevitabile per ragioni semplicemente quantitative, la descrizione archivistica è lo strumento privilegiato da utilizzare per raccontare gli archivi e renderli fruibili. Senza descrizione rigorosa gli archivi non esistono, sono muti o producono solo rumore di fondo. Si tratta però di uno strumento complesso, delicato da maneggiare. Lo è in maniera strutturale, nella sua dinamica applicazione alle vicende della conservazione e della comunicazione. Lo è ancor di più in maniera congiunturale, di fronte all’esplosivo polimorfismo archivistico che caratterizza il nostro tempo e tende a rendere evanescenti i concetti di archivio e di documento su cui la descrizione si modella. Le evoluzioni più recenti impattano infatti anche sul processo descrittivo. Un processo descrittivo che, come a su tempo prefigurato da ISAD(G), accompagna sempre più la vita del documento e dell’archivio e, anzi, la precede. Nel caso degli archivi digitali, infatti, come sappiamo si modifica il ciclo vitale del documento e il processo descrittivo si avvia fin dalla fase di concezione, dalla progettazione dell’archivio. La descrizione strumento chiave della conservazione non è più un’attività sostanzialmente ex post ma diventa, per così dire, un viatico quotidiano che accompagna il documento. Ciò mette in dubbio, per questo tipo di archivi, l’ineluttabilità del riordino e di buona parte di attività ex post che da sempre caratterizzano la funzione conservativa degli archivisti. Parafrasando Leopoldo Sandri, l’archivio storico digitale si costruisce nell’archivio in progettazione. L’archivio deve essere ingabbiato in una struttura descrittiva che miri ai contenuti e ai contesti e accompagni passo dopo passo il processo evolutivo. La descrizione (insieme alla classificazione) conferisce ordine e crea i presupposti per la conservazione o meglio rende possibile la conservazione. Senza un’adeguata descrizione archivistica la storicizzazione di questi già labili sistemi documentari risulta in definitiva impossibile. Parlare di conservazione digitale non deve significare solo mantenere inalterati determinati oggetti digitali ma anche garantire nel tempo il sistema di relazioni e aggregazioni che fanno di un insieme di dati un archivio[36]. Descrivere significa, in questo ambiente, generare quell’ordine logico cui si alludeva sopra, dar conto della tortuosità della sedimentazione digitale e tentare di certificarne l’univocità. Declinare il processo descrittivo archivistico nel contesto digitale significa garantire una corretta conservazione e fruibilità sia dei dati che del loro contesto. In ambiente digitale la descrizione riveste un ruolo chiave nel processo conservativo perché è l’unico strumento che consente di “accompagnare” la tribolata vita del documento digitale e dei suoi meccanismi di produzione. I metadati archivistici, figli della descrizione, devono accompagnare quelli di natura tecnologica, che pure ovviamente rivestono grande importanza. Ma la descrizione è anche garanzia di contestualizzazione. E in ambiente digitale il concetto di contesto, se da un lato viene messo a rischio di frettolose interpretazioni di un’idea di conservazione intesa come stoccaggio di dati, dall’altro assume un rilievo particolare in quanto garanzia di una mediazione non diversamente erogabile. L’archivio “liquido” digitale che in molti casi, e soprattutto in chiave telematica, tende a materializzarsi nel momento dell’accesso, quasi in forma di query, è un archivio per la prima volta senza archivisti e quasi costruito dagli utenti (si pensi ai modelli di aggregazione degli open data che aprono scenari archivisticamente inquietanti). In questa dimensione gli archivisti si “incarnano” nei contesti che sono in grado di costruire e restituire. Evitando le secche insidiose della contestualizzazione di fatto, che spesso accompagna il digitale e che fa affidamento appunto sulla conoscenza diretta degli avvenimenti che hanno generato determinati documenti o aggregazioni documentarie, ed è valida (per quello che vale) nell’immanente e finché sussiste memoria diretta e conoscenza degli avvenimenti. Quella che si persegue con un adeguato processo descrittivo la potremmo invece definire contestualizzazione archivistica. Essa prescinde in qualche modo dalla fattualità o meglio, colloca i fatti entro un fitto sistema di relazioni informative che li svincola dalla soggettiva memoria diretta.

Questo approccio alla descrizione si cala all’interno di un modello conservativo che viene ridefinendosi e dove sembrano ulteriormente restringersi gli spazi per la mediazione diretta/fisica.  Il modello conservativo risente inevitabilmente della situazione che abbiamo descritto nelle pagine precedenti. Innanzitutto si delocalizza e si propone su piani più articolati che tendono comunque, indipendentemente dalla collocazione, a fare della consultazione in remoto l’accesso privilegiato. Non più dunque coincidenza tra spazio conservativo e consultazione ma separazione fisica tra i due ambienti. Anche questo contribuisce a imporre l’esigenza di riformulare la mediazione e con essi l’idea stessa del prodotto ultimo della descrizione, lo strumento di ricerca. Tutti siamo stati a lungo concordi su questo e abbiamo prodotto inventari come rappresentazioni “necessariamente” approssimative dei fondi archivistici. Grande attenzione ai contesti, in definitiva meno sfuggenti, minore e quasi rassegnata analisi dei contenuti. Le strutture e non le informazioni. Il modo stesso di pensare gli inventari in quest’ottica ne costituisce l’imprinting e al tempo stesso il limite. Se oggi ci guardiamo intorno però questo approccio può probabilmente cambiare. Sospinte dal crescente processo di digitalizzazione dei documenti (e quindi dei contenuti) le istanze degli utenti[37] vanno sempre più in direzione della richiesta di “dati” piuttosto che di strutture. L’inventario quale lo conosciamo nella dimensione digitale non è più dell’archivio ma nell’archivio, magari sotto forma di un motore di ricerca capace di pescare dentro ai singoli documenti superando quel limite di “mera” rappresentatività che ha da sempre accompagnato la ricerca archivistica. Ma il ragionamento, apparentemente ineccepibile sulla carta, funziona solo se l’archivio, o meglio, i documenti al cui interno si cerca, sono contestualizzati, cioè calati in un sistema di relazioni che la classificazione genera e la descrizione cristallizza.

 

Conclusioni

La dimensione archivistica contemporanea risulta sfuggente, sospesa, incerta, perché la disciplina si deve confrontare con scenari articolati, diversificati, essi stessi sfuggenti. L’irrisolta dicotomia tra vecchio e nuovo, tra analogico e digitale certo è il nodo principale, ma non il solo. C’è il problema dei modelli organizzativi della tutela e della conservazione e, ancora, quello della formazione e della professione. E poi resta da capire quale sia il rapporto tra l’archivista (chi è l’archivista?) e le altre professioni che popolano l’universo documentario. Naturalmente non ho risposte esaustive ma mi sento di manifestare l’esigenza di un ripensamento degli statuti disciplinari e, soprattutto, dei meccanismi formativi. Perché probabilmente (ri)pensando a cosa si insegna si creano i presupposti per inseguire un cambiamento che ci sta galoppando davanti. La formazione deve nascere dagli archivi quali essi sono e si palesano e, poiché, come abbiamo visto, le fenomenologie documentarie contemporanee manifestano estrema versatilità, il meccanismo formativo dovrà essere più articolato ed elastico. Ma, al di là delle competenze specifiche necessarie a governare le diverse tipologie di archivio sembra importante che queste figure, che non sono né storici né digital curator[38], ma semplicemente archivisti, condividano valori deontologici e “venerazione” della memoria, di quella passata di quella presente e di quella futura.

Nella dimensione corrente l’archivista, o l’archivista informatico, opera a difesa dei valori giuridici e civili su un presente gravido di futuro. Alle sue azioni corrispondono reazioni capaci di indirizzare il contesto all’interno del quale agisce. Un presente senza archivisti è un presente senza archivi e quindi mutilo. Qui risiede la dimensione politica della questione archivistica contemporanea. Se la politica intesa come amministrazione nel suo complesso non riesce a percepire gli archivi difficilmente sarà in grado di esprimere progettualità. E la carenza di progettualità, la mancanza di futuro è forse il tarlo che più di ogni altro corrode la nostra convivenza sociale. La politica fatta d’immaginazione[39], quale essa dovrebbe essere, ha bisogno di certezze e conoscenze documentarie su cui appoggiarsi e da cui spiccare il salto verso il futuro. La verità certo non esiste e ogni archivio è un’interpretazione. Eppure nelle pieghe dei fascicoli, nella certezza del diritto, nella trasparenza documentale dell’amministrazione, una verità risiede. Ed è quella verità garantita dagli archivi e dagli archivisti e destinata, se accudita, a diventare memoria, a essere garanzia prima di tutto psicologica. La dimensione psicologica degli archivi, quella che va dalla consapevolezza di sé[40] alla memoria e consapevolezza di una società che in quanto consapevole ha le carte in regola per evolvere senza implodere. L’archivista del presente (un presente come abbiamo detto più volte impastato di passato e futuro) è un attivista non solo e non tanto nel promuovere campagne documentarie che ricordano le Bella Diplomatica del Muratori (il potere dell’informazione), o nella difesa dei diritti umani, cui pure può portare un contributo, quanto nel sostenere strenuamente istanze di possibili verità documentarie a sostegno di progetti di evoluzione politica, sociale e culturale. E con la parola cultura ci affacciamo all’altra metà della luna. Quella dove vive l’archivista storico, che è figura di confine e mediazione tra informazione e memoria. La domanda sorge spontanea se ci si guarda un po’ intorno. Qual è il ruolo dell’archivista comunicatore/mediatore al tempo della digitalizzazione massiva? Io credo sia innanzitutto quello di “certificatore” di contenuti, secondo formule e prassi magari ancora da individuare. Da un lato, infatti, un (incompiuto, almeno dal punto di vista degli strumenti di ricerca e degli ordinamenti) mondo analogico dove l’integrità dei fondi è essa stessa garanzia di contesto, sia pure con tutti i distinguo del caso, dall’altro la parcellizzazione digitale che impone al mediatore un intervento di (ri)contestualizzazione. L’archivista nel suo complesso non è un digital curator o comunque l’etichetta di digital curator gli sta stretta, per tutto quello che abbiamo avuto modo di dire. Questo archivista, partendo dalle sue competenze di dominio, è forse destinato a diventare innanzitutto un narratore, e, sulla scia della nozione di storytelling si potrebbe coniare quella  di Archival Science telling. Lungo questa direttrice anche grazie a nuove forme espressive multidimensionali e semantiche l’archivio, inizio di ogni cosa (e di ogni attività) intercetta altri beni culturali, altre possibili dimensioni a partire da biblioteche e musei. L’io narrante archivistico si interseca allora con altre voci, per tessere la rete della memoria vigile e realmente integrata. Allora, ricorrendo a una citazione, si può concludere in maniera analoga a come si è iniziato. «Luoghi di produzione, e non di conservazione, del significato che, animati da “l’impazienza assoluta di un desiderio di memoria”[41] ma anche dalla necessità di trasgredire le regole e di corrodere ogni vincolo categoriale, gli archivi e i musei del tempo presente (e quindi ogni archivio e ogni museo) non sono un punto di arrivo, un approdo, magari sereno, un rifugio e una garanzia, ma sono lo spazio instabile e insicuro di una continua creazione, il luogo di una nascita. Là dove le cose cominciano, appunto che è sempre un trauma e, assieme, una irrinunciabile promessa»[42].

E da questa promessa credo si possa e si debba, appunto, (ri)cominciare.

 

FEDERICO VALACCHI

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Napoli, Filema, 1996, p.11.

[2] Sull’evoluzione recente delle fenomenologie documentarie si veda tra gli altri Stefano Pigliapoco, Progetto archivio digitale: metodologia sistemi professionalità, Lucca, Civita Editoriale, 2016.

[3] Si veda il lavoro di EGAD – Expert Group on Archival Description, Record in Context. Conceptual model, 29 agosto  2016, disponibile  a http://www.ica.org/en/egad-ric-conceptual-model.  (Si veda in proposito il lavoro del gruppo EGAD (Expert Group on Archival Description), che il 29 agosto del 2016 ha pubblicato il documento Record in Context. A Conceptual Model for Archival Descrption, http://www.ica.org/en/egad-ric-conceptual-model (consultato il 30/03/2017).

[4] Ci si riferisce naturalmente alla costellazione della public history. Si vedano a riguardo, tra gli altri, Thomas Cauvin, Public history. A textbook of practice, New York, Routledge, 2017 e Serge Noiret,”Public history” e “storia pubblica” nella rete, «Ricerche Storiche», 39, 2-3, 2009, pp. 275 – 327.

[5] Sull’attivismo archivistico si veda il numero  4/2105 di «Archival Science. International Journal on Recorded Information» 4/15(2015) e in particolare l’editoriale di Andrew Flinn, Ben Alexander, Humanizing an inevitability political craft”: Introduction to the special issue on archiving activism and activist archiving, p. 329–335,   http://link.springer.com/article/10.1007/s10502-015-9260-6 (consultato il 30/03/2017).

[6] Un bell’esempio di archivista pubblica, che muove dal rigore filologico di ricostruzione delle fonti verso una vera e propria narrativa archivistica, è il caso napoletano di Cartastorie, il museo dell’Archivio del Banco di Napoli. Al riguardo si veda il sito web http://www.ilcartastorie.it/ (consultato il 30/03/2017), ma tenendo presente che il museo nella sua fisicità vale davvero una visita, per la capacità che ha di dare spessore fisico alla ‘volatilità’ dei documenti.

[7] Per un punto di riferimento e confronto si vedano al riguardo i seguenti contributi: Leopoldo Sandri, L’archivistica, «Rassegna degli Archivi di Stato», XXVII/2-3 (1967), p. 411-426; Isabella Zanni Rosiello, Gli archivi nella società contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2009.

[8] Si veda al riguardo Linda Giuva, Stefano Vitali, Isabella Zanni Rosiello, Il potere degli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea, Milano, Mondadori, 2007.

 

[9] Gregory Hunter, The Archival Profession: Looking Backward and Looking Forward, «The American Archivist» LXXIX/2( Fall/Winter 2016), p. 227-229, http://americanarchivist.org/toc/aarc/79/2 (consultato il 30/03/2017)

[10] Richard J. Matthews, Is the archivist a “radical atheist” now? Deconstruction, its new wave, and archival activism, «Archival Science», XVI/3( September 2016), p. 213–260.

[11] Sulla storia e l’organizzazione del sistema conservativo italiano si vedano Isabella Zanni Rosiello, Archivi e memoria storica, Bologna, Il Mulino,1987; Linda Giuva, Gli archivi storici in Italia: la mappa della conservazione, in Archivistica, a cura di Giuva, Guercio, p. 99 -135.

[12]Per un confronto e una riflessione si veda Adam Kriesberg The future of access to public records? Public–private partnerships in US state and territorial archives, «Archival Science», XVII/1 (March 2017), p. 5–25.

[13] Al riguardo si veda l’elenco dei conservatori accreditati da AGID , http://www.agid.gov.it/agenda-digitale/pubblica-amministrazione/conservazione/elenco-conservatori-attivi (consultato il 30/03/2017)

[14] Ilaria Pescini, Città degli archivi, archivi territoriali: nuovi modelli di conservazione in Archivistica, a cura di Giuva, Guercio, p. 405-428.

[15] Giuva, Gli archivi storici, p. 135.

[16] Si veda Federico Valacchi, Per l’interesse della scienza e del pubblico servizio. Una Cibrario 2.0 che riconosca agli archivi il potere degli archivi, in Formazione, gestione e conservazione degli archivi digitali. Il Master FGCAD dell’Università degli Studi di Macerata, a cura di Stefano Pigliapoco, Giorgetta Bonfiglio-Dosio, Macerata, EUM edizioni, p. 105-165.

[17] Stefano Pigliapoco, La conservazione delle memorie digitali, in Archivistica, a cura di Giuva, Guercio, p. 287-310.

[18] Sulle trasformazioni di archivi, archivisti e utenti si vedano Alejandro Delgado Gómez, Julio Cerdá Díaz y Luis Hernández OLIVERA, El archivo de mañana: el futuro de centros y usuarios, «Tabula», 16(2013); STEFANO Pigliapoco, Progetto archivio digitale.

[19] Eric Ketelaar, Cultivating archives: meanings and identities, «Archival Science», II/1(March 2012), p. 19-33.

[20] Trovo in questo senso esemplare il portale tematico del Sistema Archivistico Nazionale “Rete degli archivi per non dimenticare”, http://www.memoria.san.beniculturali.it/web/memoria/home (consultato il 30/03/2017)

[21] Al riguardo si vedano Stefano Allegrezza, Nuove prospettive per il Web archiving: gli standard ISO 28500 (formato WARC) e ISO/TR 14873 sulla qualità del Web archiving, «Digitalia», (2015), p. 49-61, http://digitalia.sbn.it/article/view/1473/981 (consultato il 30/03/2017); Giovanni Bergamin, Augusto Cherchi , Maria Alessandra Panzanelli-Fratoni,  Archiviare la rete: strumenti e servizi Osservazioni a margine del 6° Workshop sul documento elettronico, «Digitalia», (2016), p. 9 -3, http://digitalia.sbn.it/article/view/1627/1141 (consultato il 30/03/2017); Jinfang Niu, An Overview of Web Archiving , «D-Lib Magazine», XVIII/3-4 (2012), http://dlib.org/dlib/march12/niu/03niu1.html (consultato il 30/03/2017).

[22] Maria Guercio, Custodia archivistica, ubiquità digitale, «Archivi&Computer», 2(2011), p. 92-103.

[23] Roberto Guarasci, Le viste documentali, in Conservare il digitale, a cura di Stefano Pigliapoco, Macerata, EUM Edizioni, 2010, p. 177- 191.

[24] Al riguardo si veda Claudia Salmini, Gli archivi tra comunicazione e rimozione in Archivistica, a cura di Giuva, Guercio, p. 337-356.

[25] Si veda al riguardo Anaclet Pons, El desorden digital. Guía para historiadores y humanistas, Siglo XXI, Madrid, 2013.

[26] Si veda al riguardo http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/150/news/369/nasce-la-digital-library-della-cultura-italiana (consultato il 30/03/2017)

[27] http://san.beniculturali.it/web/san/home (consultato il 30/03/2017)

[28] Si vedano al riguardo l’articolo di Giulia Barrera, Quel pasticcio della digital library italiana, «Il Messaggero» 17 mar. 2017; il documento sottoscritto da AIB (Associazione Italiana Biblioteche), ANAI (Associazione Nazionali Archivisti Italiani), Associazione Bianchi Bandinelli, AIDUSA (Associazione italiana docenti universitari di Archivistica) e SISBB (Società italiana di Scienze bibliografiche e biblioteconomiche), molto critico rispetto alla proposta, disponibile a http://www.aib.it/attivita/comunicati/2017/62302-digital-library-iccd/ (consultato il 30/03/2017); ed anche il documento di approfondimento steso da AIB e ANAI disponibile http://www.aib.it/attivita/2017/62304-digital-library-iccd2/ (consultato il 30/03/2017).

[29] Aristotele, Metafisica, V, 29. Devo la dotta citazione applicata alla descrizione archivistica a Leonardo Musci.

[30] Stefano Vitali, La descrizione degli archivi nell’epoca degli standard e dei sistemi informatici in Archivistica. Teorie, metodi, pratiche, a cura di Linda Giuva, Maria Guercio, Roma, Carocci, 2014, p. 179-210.

[31] «Non si creda però, che con l’aiuto di un inventario si possa arrivare a conoscere i singoli documenti d’un archivio.» Scriveva Salvatore Bongi nell’introduzione al suo “monumentale”, Inventario Archivio di Stato in Lucca, vol.I,  a cura di Salvatore Bongi, Lucca, Istituto Storico Lucchese, 1999 (rist. anast., Lucca, Tipografia Giusti,1872-1888), p. 7.

[32] Giorgio Cencetti, Il fondamento teorico della dottrina archivistica, in Id. Scritti archivistici, Roma, Il centro di ricerche editore, 1970, p. 38-46.

[33] Si veda al riguardo il sempre attuale Claudio Pavone, Ma è tanto pacifico che l’archivio rispecchi l’istituto?, «Rassegna degli Archivi di Stato», XXX/1(1970), p. 143-148.

[34] Stefano Vitali, La descrizione degli archivi nell’epoca degli standard e dei sistemi informatici, p. 208 – 210; Giovanni Michetti, Ma è poi tanto pacifico che l’albero rispecchi larchivio?, «Archivi e Computer», 1 (2009) p.85-95.

[35] Dimitri Brunetti, La lente archivistica: per rendere convergenti percorsi catalografici paralleli. Appunti sulla multidisciplinarietà della descrizione, «Archivi», 1(2016), p. 101-114.

[36] Stefano Pigliapoco, La conservazione delle memorie digitali, p. 301

[37] Si veda al riguardo Alessandro Alfier, Pierluigi Feliciati, Gli archivi online per gli utenti: premesse per un modello di gestione della qualità, «J-LIS Italian Journal of Library, Archives, and Information Science», I/8(2017), p. 23-37, https://www.jlis.it/article/view/12269 (consultato il 30/03/2017).

[38] Si veda al riguardo Costis Dallas, Digital curation beyond the “wild frontier”: a pragmatic approach , «Archival Science» XVI/4 (December 2016), p. 421-457, http://link.springer.com/article/10.1007/s10502-015-9252-6 (consultato il 30/03/2017)

[39] Sul rapporto tra politica, verità e immaginazione si veda La politica tra verità e immaginazione, a cura di Alessandro Ferrara, Milano, Mimesis, 2016.

[40] Si pensi al riguardo al fenomeno della diaristica che attira molte attenzioni e ha una dimensione archivistica particolare e importante. Per un esempio si veda l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, http://archiviodiari.org/ (consultato il 30/03/2017)

[41] Michel Foucault, Utopie Eterotopie, a cura di Antonella Moscati, Napoli, Cronopio, 2006, p. 76.

[42] Stefania Zuliani, Là dove le cose cominciano. Archivi e musei del tempo presente, «Ricerche di S/Confine. Oggetti e pratiche artistiche/culturali», Dossier 3/(2014), p. 81-88, in particolare p. 88, https://www.scribd.com/document/251585766/Stefania-Zuliani-La-dove-le-cose-cominciano-Archivi-e-musei-del-tempo-presente (consultato il 30/03/2017).  .

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